mercoledì 4 agosto 2021
Le regioni montane sono gli ambienti privilegiati in cui è possibile incarnare il dono divino della vita. Non si tratta di “fuggire” in montagna: la salvezza è nei suoi modelli di vita autentica
Marta Dell’Angelo, “Tararà, 9 luglio 2017. Montagna dell’Aragats”, video performance. Opera esposta a Domodossola nella mostra “Vertigine. Visioni contemporanee della montagna” a Domodossol

Marta Dell’Angelo, “Tararà, 9 luglio 2017. Montagna dell’Aragats”, video performance. Opera esposta a Domodossola nella mostra “Vertigine. Visioni contemporanee della montagna” a Domodossol

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Recita il Salmo 121: «Alzo gli occhi verso i monti: / da dove mi verrà l’aiuto? / Il mio aiuto viene dal Signore, / che ha fatto cielo e terra». I monti sono per eccellenza, in tutte le spiritualità e religioni, luogo di approssimazione, di ispirazione a un contatto con la Divinità. Le difficoltà ad accedervi, la necessità di esercizio e concentrazione, di alleggerimento, rinuncia a ogni cosa superflua per ascendere, il bisogno di essenzialità e attenzione per sopravvivere in condizioni limite della vita, compresa nel suo esser sospesa incessantemente a un soffio superiore, fanno delle montagne i luoghi di possibile avvicinamento al divino. Ma le regioni montane sono anche gli ambienti privilegiati in cui, proprio grazie alle evidenti limitazioni del vivere, eppure anche agli elementi naturali presenti in condizioni sorgive, quasi pure, è possibile incarnare il dono divino della vita, anticipare e riattingere addirittura, passo a passo, mano a mano, poco a poco, il Paradiso.

Le Alpi, dall’VIII secolo in avanti, grazie ai monaci benedettini divengono paradigma europeo, attraverso la regola dell’ora et labora, di una mite colonizzazione della terra da parte dell’uomo, a incarnare il messaggio evangelico di pace e ascolto del divino nell’azione quotidiana di cura del creato, rispettato nel trarne i frutti della ciclica rigenerazione favorita dall’intelligenza e laboriosità umana. Per questo le montagne sono sempre state territori di rifugio, per salvarsi da guerre, persecuzioni, pestilenze cittadine e delle piane.

In epoca di pandemia, non pochi si sono rivolti a esse per trovare isolamento, quiete, ristoro. La salvezza dal male delle civiltà tecnocratiche, che nel manipolare la vita devastano il creato e l’uomo, non potrà però ridursi alla fuga delle masse metropolitane in montagna. Ne sarebbe la rovina. Più si sale e più lo spazio si riduce, massificando così anche gli eccelsi luoghi.

La salvezza che dona la montagna è piuttosto esemplare, mostrando con i suoi modelli di vita minimale ma autentica, fatta di fatica e gioia assieme, rispettosa dei limiti della vita naturale poiché culturalmente aperta alla trascendenza verticale, la possibilità di vivere in piccole comunità, radicati nei ritmi ciclici dell’autorigenerabilità naturale, in pacifica relazione con il prossimo nelle sue differenze linguistiche e culturali, aperti ad accogliere il divino nella quotidianità umana, mortale.

In un prezioso racconto autobiografico, Un’estate in alpeggio (Ponte alle Grazie, pagine 128, euro 13,00), il filosofo e antropologo Annibale Salsa ripercorre i suoi primi passi nella vita alpigiana, allorquando all’età di dieci anni, poi ricorrentemente diverse estati successive, si recò con i parenti alpigiani all’Alpe della Balma del Mondolé, nelle Alpi Liguri, per condurre in alpeggio una piccola mandria di mucche. Fu così che con uno zainetto sulle spalle e otto mucche attorno a lui giunse in quello spazio aperto all’infinito dell’alta montagna, abitato da un mistero e aperto verso l’altrove.

Nel paesaggio alpino, costruito nella sua ricca biodiversità attraverso una lenta, simbiotica interazione fra cultura umana e spontaneità naturale, assistette alla genesi continua di un mondo che appariva eterno, incorruttibile nella sua ciclica rigenerabilità. Lassù apprese la cultura del limite, del non pretendere troppo dalla natura, del rispetto dei tempi, dei ritmi, dei silenzi, dell’attesa, del sapere che al di là qualcosa di misterioso sempre attende il nostro sentire, ma anche che la cultura non ha limiti, confini, perché la montagna anziché dividere unisce. Dopo rilevanti studi dedicati alle Alpi e alle loro popolazioni e culture, Annibale Salsa ci dona una sentita, toccante, istruttiva confessione personale sulla fonte prima di tutta la sua vita lavorativa e spirituale, una rara e dotta testimonianza diretta dell’attività umana in montagna, di cui l’alpeggio, con il suo seminomadismo stagionale e il vivere nella natura con cura, dedizione, ascolto del mistero, è l’essenza paradigmatica e l’invenzione più evoluta.

Ma diversi sono oggigiorno gli amanti della montagna che, pur provenendo da dimensioni cittadine, sanno avvicinarne con intelligenza la cultura del limite. Penso al giornalista e scrittore Carlo Grande, che nel recente volume Il giardino incantato. Un viaggio dell’anima dalle Alpi occidentali alle colline delle Langhe e del Monferrato (Terra Santa, pagine 240, euro 16,90) ci introduce con la giusta lentezza, il pensoso acume, il ricco riattingimento letterario, che anch’esso costituisce lo spessore storico e umano della bellezza degli ambienti avvicinati, a diversi luoghi significativi e alle persone che li abitano, pur nella loro apparente marginalità, delle montagne piemontesi, muraglie volte a preservare un giardino fatto di incanti e misteri, amori e dolori.

Anche Carlo Grande ebbe comunque un’iniziazione prima montana, grazie alla visione educativa di don Nino Salzotti, parroco di Torre Mondovì negli anni settanta del secolo scorso, il quale nella natura montana mostrava ai giovani la possibilità dell’autosufficienza comunitaria, rispettosa al cospetto del Creatore dell’ambiente naturale, ricco di echi storici e cura umana.

Oppure ricordo il meteorologo e giornalista Luca Mercalli, che nel suo diario Salire in montagna. Prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale (Einaudi, pagine 208, euro 17,50) riporta l’esperienza personale di ristrutturazione e nuova fruizione di un’abitazione tradizionale nella Valle di Oulx, in borgata Vazon, riconvertendola a nuove attività, ma nell’intelligente rivisitazione di quelle antiche, in comunione con i ritmi naturali alpini anche attraverso il ricorso alle recenti conoscenze scientifiche e tecnologiche, mostrando la montagna come luogo di avanguardia sociale e ambientale.

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Le immagini qui pubblicate sono tratte da “Vertigine. Visioni contemporanee della montagna”, mostra collettiva a cura di Giorgio Caione che attraverso pittura, scultura, fotografia, video e installazioni indaga lo sguardo degli artisti sul mondo e l’immaginario delle cime. L’esposizione è allestita fino al 5 settembre negli storici spazi di Casa De Rodis, palazzo medievale nel cuore di Domodossola, ed è realizzata da Collezione Poscio (che custodisce un’importante nucleo di vedute di pittori vigezzini dell’Ottocento, alle quali queste opere si collegano implicitamente) in collaborazione con l’Associazione Asilo Bianco.

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