martedì 18 giugno 2013
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​Le voci della notte a teatro. 19 attori per 19 storie di clochard ne I giorni del buio, lo spettacolo diretto da Gabriele Lavia, in scena da domani al 23 giugno presso il teatro Argentina di Roma. Saggio di laurea dell’Accademia Nazionale d’Arte drammatica "Silvio d’Amico", la prima e più importante scuola per attori in Italia, I giorni del buio è un esperimento a 360 gradi ideato da Lavia dove gli attori sono anche autori del testo teatrale, ispirato a incontri e interviste con 19 senza tetto che vivono a Roma. L’invisibile ai margini diventa il centro di questo spettacolo teatrale, esperienza professionale ma anche di vita dove l’arte non si improvvisa, ma è frutto di fatica e di cuore.Lavia, com’è nata l’idea de «I giorni del buio»?Cercavo un testo classico, adatto dove ogni allievo dell’Accademia Silvio D’Amico potesse avere la stessa possibilità di esposizione. Poi mi è venuta l’idea. Ero a San Francisco per lavoro (nel 2012 ha curato la regia di Don Giovanni e Attila al San Francisco Opera, ndr) e per le strade mi imbattevo in numerosi homeless. Dentro di me pensavo che sarebbe stato interessante mettere in scena le loro vite. Così ho chiesto agli allievi di intervistare un clochard e di lavorare sul testo di quella "confessione". Che tipo di lavoro sul testo è stato svolto?Lo spettacolo non è una testimonianza fedele delle interviste, ma un lavoro libero con la pretesa di essere poetico, nel senso etimologico del termine, ovvero mettere in opera un testo con molta libertà senza ambizione di carattere realistico. Gli allievi hanno intervistato homeless che vivono a Roma. Sono tutti italiani, anche se c’è un inglese, una polacca e qualche rumeno. La loro età varia dai 60 agli 80 anni. Il nostro non è un documento sociale sul fenomeno degli homeless, ma una ballata, con le belle coreografie di Enzo Cosimi, sul loro mondo. Ogni senza tetto è diverso, ma la solitudine è il filo rosso che lega le loro vite. Una di loro, originaria di Ninfa, ha detto: «Se al mondo non hai nessuno che ti vuole bene, allora smetti di esistere e diventi un fantasma». Un altro ha spiegato la sua condizione: «Non ci sono maestri barboni perché ogni barbone è un maestro». Penso che questa sia la sintesi di una condizione emarginata, infelice, oltre la linea. Loro, che vivono di notte, vedono quello che la gente normale non vede di giorno. Si sentono perciò una casta ai margini della quale vive il mondo normale.Come hanno reagito gli allievi di fronte a questa impostazione lavorativa?Gli allievi, che hanno dai 22 ai 25 anni, sono molto diversi dall’epoca della mia gioventù. Il mondo è diventato un altro e i giovani sono meno forti di noi perché sono nati e vissuti in una società più opulenta. E questa società opulenta per farsi perdonare l’immonda opulenza ha viziato i figli. A cominciare da me che non sono mai stato in grado di essere un padre esigente. Potrei essere il nonno di questi ragazzi, che vedo poco attrezzati al dolore e alla delusione. Devo dire però che hanno lavorato tantissimo e, rispetto al primo giorno, sono diventate altre persone.Cosa è cambiato nello studio di questa professione?Mi sono diplomato alla Scuola Silvio D’Amico con altri 63 attori. Ora siamo rimasti solo in tre a lavorare sul palcoscenico. Oggi le scuole di recitazione sono più di mille. Ogni tanto trovo nei bar locandine di scuole di recitazione, dirette da uomini furbi che hanno trovato il modo di diventare molto ricchi. Il teatro però è un mestiere vero che non vive di queste scorciatoie.
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