martedì 10 maggio 2011
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Loro, i latinisti, dicono di non sentirsi una specie in via d’estinzione. «Non siamo animali da Wwf». Sarà. Però l’atmosfera che si respirava ieri alla Cattolica di Milano, al convegno "Latino e greco nella cultura generale del Duemila", non era propriamente improntata all’ottimismo. Chi tracciava il quadro della situazione degli studi classici, nei licei o all’università, snocciolava cifre ed esperienze impostate al costante ribasso. Chi azzardava ipotetiche nuove vie andava a tentoni, rivendicando l’importanza della propria disciplina – certamente a ragione, ma altrettanto certamente nel disinteresse generale della società contemporanea – e lanciando idee un po’ fumose su come rivitalizzarli "agganciandoli" ai treni che vanno per la maggiore. Sullo sfondo, i timori legati al riordino dei licei, con significative riduzioni delle ore dedicate al latino.Gelmini a parte, comunque, Guido Milanese della Cattolica individua due vizi di antica data, negli studi classici in Italia: «Da una parte, il "riduzionismo": il programma dei licei scientifici è quello dei classici tagliato di un quarto; quello dei licei sociali è il medesimo tagliato della metà... Lo stesso all’università: il massimo lo si dà a Lettere classiche, si sottrae qualcosa per Lettere moderne, si taglia ancora un po’ per Beni culturali e così via. Invece percorsi di studio diversi – con preparazioni di base e aspettative degli studenti diverse – dovrebbero avere programmi diversi. L’altro vizio è il "pregiudizio classicista": pensare cioè che si studia latino soltanto per i classici. E questo è un veleno: al contrario, il latino è la lingua di tutta la civiltà europea fino al Romanticismo; non solo Cicerone, ma anche san Tommaso, Spinoza, Milton, Newton». Vero: ma come trasformare tale indubbio ruolo fondante della cultura classica in una motivazione efficace per studiarlo da parte dei non specialisti? Milanese lancia qualche idea: «Di attenzione per il passato ne vediamo molta, dalla letteratura al cinema. Progettando un nuovo paradigma di studio, dovremmo inserire i mass media; magari si può puntare su un approccio non professionalizzante, che s’interessa ai classici per piacere e arricchimento personale. Come spesso accade con la musica». C’è chi cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno, come Chiara Torre della Statale di Milano – «Politicamente parlando, in fondo la riduzione dei nostri corsi non è una tara, perché almeno ne garantisce la sopravvivenza; "compattare" i vari filoni degli studi classici finisce per dar loro maggiore forza» – e Giusto Picone dell’Università di Palermo: «È vero, anche l’Italia va verso la riduzione della presenza classica nelle scuole: ma siamo ancora messi meglio del resto d’Europa, e la tendenza magari non è irreversibile. E poi non c’è solo la scuola, anzi: nella società, dalla produzione saggistica e romanzesca al successo di eventi come le rappresentazioni di teatro classico a Siracusa, di interesse ce n’è molto». Il problema, rilevano in coro i latinisti, è innestare su questo interesse il rigore e la fatica degli studi classici. «Bisognerebbe far presente al mondo d’oggi la necessità di rafforzare la memoria della nostra eredità», sospira Picone prima di citare Non per profitto di Martha Nussbaum, il saggio che ieri al convegno veniva ripetutamente additato dai classicisti quasi come una ciambella di salvataggio.Il problema di destare interesse non affligge soltanto gli ambiti scolastici e accademici: Giorgio Paximadi della Facoltà di Teologia di Lugano rileva che «nemmeno i nostri studenti mostrano curiosità. Con loro, che arrivano da tutto il mondo, non si può richiamare le radici culturali o l’eredità storica, perché vengono da altre tradizioni... La Bibbia interessa, certo, ma in un modo un po’ astratto, difficile da connettere direttamente allo studio della civiltà antica. Tuttavia abbiamo ottenuto buoni risultati quando abbiamo organizzato, insieme con la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, corsi biblici in Terrasanta: a Gerusalemme o a Cesarea i ragazzi scoprono l’importanza di comprendere il contesto nel quale è vissuto Gesù. Sarà un interesse strumentale, però è vero e vivo. Certo, il difficile è trasferire questo modello al di fuori degli ambiti dove c’è un diretto coinvolgimento; e dire che qui dovrebbe essere scontato, gli italiani hanno monumenti romani sotto gli occhi tutti i giorni...».Già la curiosità, «quella che fino a pochi anni fa nasceva alle elementari, quando le maestre ancora raccontavano di Romolo e Remo e di Muzio Scevola. Oggi al contrario – nota Andrea Balbo dell’Università di Torino – i ragazzi arrivano al liceo senza averli mai sentiti nominare. Non vorrei che la curiosità sulla quale possiamo far leva non sia tanto quella di approfondire le nostre origini, quanto quella che si prova di fronte all’ignoto». Conferma Picone: «Ricordo ancora quando la passione nacque in me: ero in seconda elementare e ricevetti in dono la collana "I classici spiegati ai fanciulli". E subito il mio fortino di Fort Apache divenne Ilio, i soldatini di americani e pellerossa si trasformarono in Achei e Troiani... Questo dovrebbe essere il modello: lavorare sulla società non arroccandoci in difesa, ma proporre in positivo la cultura e il valore generale delle scienze umane. Sul versante interno, invece, la sfida è stilare un sillabus per gli specialisti, un patrimonio di conoscenze che riteniamo imprescindibile per chi voglia dedicarsi professionalmente agli studi classici».Non ha certo aiutato il morale Robert Malby dell’Università di Leeds, che con anglosassone precisione ha riportato, decade per decade, le tappe del declino degli studi classici in Gran Bretagna: «È iniziato negli anni Sessanta, quando Oxford e Cambridge hanno per la prima volta abbassato il livello di conoscenza di greco e latino necessario per l’ammissione, ed è poi avanzato con la progressiva esclusione dalle scuole superiori delle lingue classiche, definitivo dal 1984. E anche le università hanno ormai rinunciato del tutto a richiedere competenze linguistiche, per non "bruciarsi il mercato", e organizzano corsi di alfabetizzazione». Si dice che almeno negli Stati Uniti le cose siano diverse... «Certo – ha sorriso Maltby –. In effetti là il declino è iniziato già negli anni Cinquanta. Fu colpa dello Sputnik lanciato nel 1957 dai sovietici: gli americani ne furono traumatizzati e iniziarono a chiedersi che cosa ci fosse di sbagliato nel loro modello educativo, visto che i russi li stavano surclassando». Nemmeno il latinista inglese si fa troppe illusioni sul futuro: «Sarà utile conservare un piccolo gruppo di specialisti, che sia in grado di perpetuare la conoscenza delle materie classiche».A gettare uno sguardo concreto sul da farsi è stato ancora Balbo, che ha analizzato nel dettaglio i mutamenti introdotti dal riordino Gelmini. Registrato che «al classico le cose cambiano poco, mentre allo scientifico, al sociopsicopedagogico e al linguistico le ore di latino si riducono sensibilmente, a vantaggio di quelle dedicate alle materie scientifiche», propone: «Nelle linee guida ministeriali di indicazioni e di spazi per impostare diversamente le cose se ne trovano. Snellire ma non abbandonare l’insegnamento della lingua, ampliare lo studio della letteratura a quello della civiltà classica a tutto tondo, integrare il latino con le altre lingue dei curriculum e con le materie scientifiche». O tempora, o mores...
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