giovedì 27 febbraio 2020
L’attore genovese è l’amatissimo pm Nardi nella serie di Rai 1: «Al centro domina l’umanità dei vari personaggi. Terence Hill grande esempio per ognuno di responsabilità verso il pubblico»
L’attore teatrale e televisivo Maurizio Lastrico, in onda su Rai 1 con la serie “Don Matteo”

L’attore teatrale e televisivo Maurizio Lastrico, in onda su Rai 1 con la serie “Don Matteo” - Ambaradan Fotografia

COMMENTA E CONDIVIDI

«Mia mamma è cintura nera di cattolicesimo ed è felicissima di vedermi recitare in Don Matteo». Sorride parlando dell’amatissima madre l’attore Maurizio Lastrico che in Don Matteo 12, in onda su Rai 1 ogni giovedì sera, veste i panni del burbero e romantico pm Marco Nardi che cerca di riconquistare il cuore del capitano Anna Olivieri. Il genovese Lastrico, 40 anni, è un artista poliedrico, attore e cabarettista, forte di una solida base maturata presso la Scuola del Teatro Stabile di Genova, dove si è diplomato nel 2006, recitando poi Shakespeare e Goldoni, sino a debuttare nel 2010 a Zelig su Canale 5 con irresistibili parodie delle terzine dantesche della Divina Commedia. Terzine che ripropone anche nello spettacolo autobiografico con cui è in tournée Nel mezzo del casin di nostra vita. Ma anche lui ha dovuto fare i conti con l’allarme coronavirus: l’appuntamento di ieri sera a Milano è stato posticipato a data da destinarsi, mentre al contrario, le date romane al Brancaccino di questo fine settimana sono confermate e stanno registrando il tutto esaurito.

Maurizio Lastrico, sono tempi duri per gli attori di teatro. Lei per fortuna è anche molto amato in tv.

Guardi, del teatro io non posso fare a meno, ne sento il bisogno, tanto che anche quando giravo su un set impegnativo come quello di Don Matteo, che dura dieci mesi, ho sempre ottenuto di potermi allontanare per recitare due o tre date al mese. Però, se io avessi la responsabilità di sessanta milioni di italiani, preferirei lanciare l’allarme, piuttosto che sottovalutare il problema. Come tutti, io come attore sono pronto sia a scendere in campo sia, eventualmente, a fare un passo indietro.

Come si regola un attore in questi momenti di incertezza?

Io ho chiamato personalmente, per informare di tutti gli spostamenti della mia tournée nel dettaglio, il numero specifico dell’Asl di Genova, la mia città, e ringrazio il personale che è stato chiaro e puntuale. Certo, chiudere i teatri è un danno per tanti colleghi che faticano a vivere di questo mestiere, e spero che la situazione si risolva presto per tutti. Ma il nostro Paese in questo momento può dimostrarsi solido ed efficiente. Fidiamoci delle persone che sono competenti, anche se poi siamo diventati ormai tutti dipendenti dai social in questi giorni.

A proposito di social, lei è molto legato a sua madre, che è anche protagonista di alcune gag con lei su Facebook.

Moltissimo, da buon figlio unico, contando anche che papà, che era il vero comico di famiglia, è mancato dieci anni fa proprio tre giorni prima che debuttassi a Zelig. Vado a trovare mia madre a Genova ogni volta che posso. In effetti in tanti mi hanno detto che io e lei potremmo fare una sit com. Insieme commentiamo la tv e le sue uscite sono irresistibili.

Lei si divide tra arte drammatica ed umorismo.

L’umorismo è una delle forme di comunicazione più belle che ci sia stata donata, è qualcosa di mistico, di magico sia per il potere che ha sugli altri, sia per il legame che si crea tra le persone, una connessione tra intelligenza ed esperienza per esorcizzare il mistero della vita. Nel teatro la comicità ha una sua sacralità, la sacralità dell’ascolto, dell’incontro.

A proposito, eccoci a Don Matteo di cui lei è fra i protagonisti.

Lavorare in Don Matteo è un percorso a livello umano molto alto. Nel mio ruolo del magistrato Marco Nardi io affronto il senso di colpa, la ricerca del perdono, la presa di coscienza di quanto l’amore possa degenerare nell’egoismo. Mi piace raccontare l’essere umano nei suoi fallimenti, amandolo. Poi, ovviamente, c’è anche la parte comica insieme al maresciallo Cecchini.

Com’è lavorare con un “monumento nazionale” come Terence Hill?

Se è diventato un mito, è dovuto al suo modo di affrontare il lavoro. Ha una adesione totale al personaggio, vive la responsabilità di porsi a milioni di persone. È come diceva De Andrè: «Devo stare attento a cosa dico e scrivo perché le persone ci credono». Io sto imparando dalla sua professionalità esemplare. Quando reciti con Terence, senti l’amore per il partner: se ti occupi dell’altro attore sai provocargli emozioni, parli alla sua anima.

Lei nel suo spettacolo racconta che i suoi esordi avvennero in parrocchia.

Sono cresciuto a Manesseno di Sant’Olcese, sulle alture di Genova. In paese c’erano solo due luoghi di ritrovo, il bar e l’oratorio. Io ho iniziato a suonare in un gruppo della chiesa e a scrivere lì i primi testi musicali. Poi dicevo delle scemate come trait d’union tra un brano e l’altro.

Da lì arrivano ance le sue “riduzioni” della Bibbia in cinque minuti?

A me piaceva moltissimo andare in chiesa, e mi piace tutt’ora frequentarla. Solo che andavo male a catechismo e a 13 anni, per fare la cresima con gli altri, ho dovuto recuperare. In me allora convivevano due anime, quella della mamma, grande credente, e quella di mio padre, comunista convinto che lavorava in fabbrica. La catechista Bruna, bravissima, mi fece un corso di recupero sui Vangeli che dovevo studiare a memoria. «Visto che dici sempre stupidate, fatti uno schemino della storia di Gesù con le battute» mi disse. Per la Bibbia in cinque minuti ho fatto uno studio basato proprio sulle reminiscenze del catechismo. La mia comicità, però, cerca di essere sempre rispettosa.

E lei oggi come si pone nei confronti della fede?

Inevitabilmente siamo permeati della cultura cristiana, nell’etica, nel modo di comportarci. Siamo figli di quella formazione, anche se spesso la si mette in contraddizione, in dubbio. Io continuo la mia ricerca, il mio percorso: è una cosa molto importante per me.

Al teatro come è arrivato?

Ho fatto l’educatore per anni in una cooperativa accanto a psicologi e assistenti sociali. Verso i 23 anni volevo fare i conti anche con la mia parte artistica. Mi sono preparato per le audizioni al Teatro Stabile di Genova: su 800 candidati ne hanno scelti 8, fra cui io. Mi è cambiata la vita e il teatro mi ha cambiato. Ho iniziato un percorso che continua, una ricerca di espressione di verità.

La passione per Dante come è nata?

È stato fondamentale l’incontro con Anna Laura Messeri, dantista eccellente e insegnante allo Stabile: ci fece imparare 100 versi della Divina Commedia a memoria per entrare al primo anno di scuola. Ero affascinato dal compromesso fra recitazione e musica: il verso è come avere una chitarra ritmica di base. Così ho iniziato a parodiare l’articolazione e gli studi sulla voce delle terzine dantesche. Mi piace prendere in giro le cose che mi piacciono.

E dopo molto tempo arriva il successo “dantesco” a Zelig...

Questa comicità non era immediatamente percepita. Erano anni quelli in cui il cabaret puntava sulla semplificazione, si andava verso l’uomo del bar, l’identificazione. Essere troppo teatrale era un handicap. Per fortuna Gino e Michele e Giancarlo Bozzo si sono innamorati di queste mie terzine.

Non ha pensato a un’operazione sulla Divina Commedia alla Benigni?

Ci sono dei dantisti molto più bravi di me, ma certo mi piacerebbe proporre una Divina Commedia viva, non museale. Mi attrae il potere del racconto, la forza narrativa di un essere umano che di fronte a cose mirabili viene sconquassato, ma comunque le racconta, pur con le difficoltà di un uomo. Stare dentro la metrica rappresenta la difficoltà dell’essere umano di esplicare visioni così alte».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: