sabato 27 maggio 2023
Da sempre è al centro del dibattito teologico e filosofico ma spesso se ne sottovaluta la capacità mimetica e d’inganno. Parlare di lotta non è metafora e affinare la conoscenza di sé è il primo passo
Il “San Giorgio e il drago” di Paolo Uccello, conservato alla National Gallery di Londra (1460 circa)

Il “San Giorgio e il drago” di Paolo Uccello, conservato alla National Gallery di Londra (1460 circa) - WikiCommons

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Proponiamo in queste colonne un estratto dell’introduzione alla seconda edizione del volume di Giovanni Scarafile In lotta con il drago. Male e individuo nella teodicea di G.W. Leibniz (Milella, pagine 196, euro 18,00) in questi giorni in libreria. Al tema del male è dedicata la puntata di Sulla via di Damasco, in onda domani alle 7.35 su Rai Tre. Ospiti di Eva Crosetto assieme a Scarafile, docente di Antropologia filosofica all’Università di Pisa, interverranno anche monsignor Dario Edoardo Viganò, vice cancelliere della Pontificia Accademia delle scienze socia-li, Hagi Kenaan dell’Università di Tel Aviv e Stefano Polli, vicedirettore dell’Ansa.

Il problema del male è un tema costante nella riflessione filosofica e teologica. Non di rado, le soluzioni proposte sono state giudicate insoddisfacenti, in certi casi perfino oggetto di derisione. Potrebbe sembrare un fallimento, ma non necessariamente lo è. La mancanza di soddisfazione derivante dalle risposte delle teodicee può diventare il nutrimento per il pensiero, assistendoci nella ricerca di un approccio più significativo al male. Perché, dunque, le risposte al problema del male non sono del tutto soddisfacenti? Se si va oltre le difese d’ufficio e si considera il problema con pacatezza e spirito critico, ci si accorgerà che quasi sempre si e trascurato di considerare la questione del male nella prospettiva dell’individuo che soffre, accontentandosi di conciliare dal punto di vista teorico i diversi elementi che compongono il tema. In altri termini, i pensatori si sono comportati come un giardiniere che si concentri sul disegno del giardino, perdendo di vista i singoli fiori appassiti e malati.

Su un altro versante, che analizzi gli strumenti dell’indagine sul male, va detto che a volte le stesse domande sembrano mosse da un intento oltremodo chiarificatorio che non solo non ammette eccezioni, ma che soprattutto mal si concilia con l’inevitabile componente di mistero insita in un tema che, per ciò che rappresenta, potrebbe essere paragonato a un iceberg nell’oceano del pensiero umano. Così come solo una piccola parte dell’iceberg è visibile sopra la superficie dell’acqua, mentre la maggior parte della sua massa rimane nascosta, il problema del male sfugge alla comprensione piena e definitiva, poiché la sua vera natura e complessità sono celate sotto strati di ambiguità, incertezza e mistero.

Gli sforzi per chiarire e risolvere il problema del male devono quindi tener conto del fatto che, nonostante le nostre migliori intenzioni e capacità analitiche, potremmo non essere mai in grado di sondare completamente le sue profondità e di comprendere appieno il suo impatto sull’esperienza umana. In realtà, il tentativo di trovare un orientamento, seppur minimo, di fronte al male, riposa su un indimostrato e tacito presupposto in base al quale si ritiene che una “messa in forma” del male sia - tutto sommato – possibile. Lungo questa traiettoria, si tratterebbe di organizzare, strutturare e dare un senso a qualcosa che inizialmente appare non facilmente maneggiabile, caotico, imprevedibile, affidandosi a un qualche dispositivo del pensiero in grado di “legare” il male, ovvero non lasciarlo libero di agire secondo una logica a noi aliena.

L’indimostrato e tacito presupposto, dunque, agisce ogniqualvolta tentiamo di applicare un ordine o una struttura logica al male, inteso alla stregua di un mero fenomeno o a un’esperienza, al fine di renderla più accessibile e comprensibile. Nonostante lo scopo di tale modo di procedere sia nobile, agendo in questo modo, è come se si negasse al male ciò che di più proprio esso possiede: il suo essere soluto, sciolto da legami, immaginandolo statico e in attesa della nostra iniziativa. Il male, invece, come un camaleonte che cambia continuamente forma e colore, sfugge alle nostre aspettative e, agendo a nostra insaputa, adattandosi e mimetizzandosi nel nostro ambiente, rende più difficile se non impossibile il compito di identificarlo e intenderlo.

Dunque, la nostra reale condizione è di essere incatenati alla seguente questione: possiamo inscrivere nella giustizia del logos ciò che al logos non compete? Per tali ragioni, il nostro ragionare sul male si svolge sempre sul crinale di quella stessa speranza contro ogni speranza di cui parlava Paolo nella Lettera ai Romani. Il male, in effetti, non è un oggetto statico, ma un soggetto dinamico, un’entità attiva e consapevole, in grado di agire e influenzare il mondo che lo circonda. Non a caso, Nietzsche scriveva: «Se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te». Dunque, mentre il male viene visto, esso è anche in grado di vedere chi lo sta osservando. Essere scrutati visivamente dal male non è un’operazione a somma zero. Tutt’altro. Una volta che il male abbia accesso alla nostra interiorità, può infiltrarsi nelle nostre convinzioni, alterando la nostra percezione del mondo e, come un parassita invisibile, può gradualmente corrodere tutto ciò che incontra.

In questa situazione, il male può indurci a giustificare o razionalizzare azioni e atteggiamenti dannosi, sia verso noi stessi che verso gli altri. Può spingerci a compromettere i nostri principi etici e a trascurare la nostra responsabilità nei confronti della comunità e dell’ambiente. Nel tempo, la presenza del male nella nostra interiorità può erodere la nostra autostima, la fiducia nelle nostre capacità e la nostra speranza in un futuro migliore. L’interiorità, la dimensione interna e personale dell’esperienza umana, è ciò che rende unica e irripetibile l’esperienza di ogni persona, influenzando il modo in cui si relaziona con se stessa e il mondo esterno. Intaccare l’interiorità da parte del male può portare a conseguenze significative e durature, sia a livello emotivo che psicologico. Quando il male invade l’interiorità di un individuo, può manifestarsi in varie forme, come il dolore, la sofferenza, la paura, la colpa, l’ansia o la depressione.

Queste emozioni e sensazioni negative possono turbare l’equilibrio interiore, compromettendo la capacità di una persona di mantenere una visione chiara e autentica di sé e di relazionarsi in modo sano con gli altri. L’aggressione dell’interiorità può anche influire sulle credenze e sui valori di un individuo, portando a una crisi di identità o a una perdita di senso e direzione nella vita. In alcuni casi, la distorsione dell’interiorità può spingere una persona a compiere azioni dannose per se stessa o per gli altri, amplificando ulteriormente il ciclo di sofferenza e negatività. Per questi motivi, la lotta col drago non è solo un modo allusivo per riferirsi alla gestione del male. Essa, piuttosto, va adeguatamente preparata, dando avvio o confermando il processo di conoscenza di sé e delle proprie risorse interiori: non c’è alcuna lotta senza una vita desta.

Dobbiamo, quindi, impegnarci nel processo di scoperta interiore e di crescita personale, esplorare e coltivare la nostra interiorità e affrontare il male con saggezza, discernimento e compassione. Solo allora saremo in grado di affrontare le sfide che il male ci pone, proteggere la nostra interiorità e contribuire alla creazione di un mondo più equo, pacifico e amorevole per tutti. Nella lotta col drago, quindi, l’obiettivo non è negare la realtà dell’avversario, ma piuttosto trovare il cammino verso quel particolare tipo di speranza delineato da Bernanos quando osservava: « La più nobile manifestazione della speranza è il superamento della disperazione».

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