lunedì 20 gennaio 2014
​Parla il regista che ha documentato lo sterminio: "Dopo le mie accuse a Schinder's List ci siamo riconciliati" 
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​Ha compiuto 88 anni, ma dice ormai di se stesso, con voce grave, di «non avere più età». Perché il francese Claude Lanzmann si vede ed è visto prima di tutto come «un vivente che parla». Un testimone che ha passato decenni ad incontrare altri testimoni. E una testimonianza, tanto più se dedicata all’indicibile buco nero dell’Olocausto, chiede solo di perpetuarsi, non tollerando scadenze. Tante domande assalgono il visitatore all’ingresso nel luminoso studio parigino dell’autore di Shoah, il "monumento cinematografico" che meglio ha saputo restituire la profondità abissale del genocidio nazista. «Oggi, come vuole la moda, occorre salvare tutto, i ricordi di tutto. Io non sono mai stato così. Penso che la morte vince, in un modo o nell’altro. Non bisogna ricordarsi di tutto. È meglio così», sostiene a voce bassa, evocando una delle ragioni che lo spinsero a non inserire in Shoah l’incontro, filmato nel 1975 a Roma «durante un’intera settimana», con Benjamin Mulmerstein, l’ultimo presidente del consiglio ebraico di Terezín. Si tratta proprio del controverso personaggio e dell’eccezionale scambio che sono adesso al centro di L’ultimo degli ingiusti, già presentato l’anno scorso al Festival di Cannes e in arrivo in Italia, dove Lanzmann sarà a fine mese per una serie di proiezioni in anteprima e incontri a Milano e Roma, in corrispondenza della Giornata della Memoria. «Di film come questo, potrei ancora farne altri», spiega il regista, che per Shoah realizzò fra il 1974 e il 1981, nelle condizioni tecniche dell’epoca, circa 350 ore di riprese, viaggiando in tutt’Europa e non solo: «Ero folle, ma volevo capire». E oggi, Lanzmann ha ancora paura che la memoria evapori? «No, non lo credo per nulla. È un luogo comune come un altro. Shoah è stato fatto, no?», risponde, ricordando al contempo che il suo "pessimismo attivo" non l’abbandona: «Resto attivo, non andrò mai in pensione. Sono pessimista perché ci attende la morte, quest’enorme scandalo della condizione umana». Lo stesso al centro del suo capolavoro: «Shoah non è un film sui sopravvissuti, ma sulla morte. Sulla radicalità della morte nelle camere a gas. È un film sulle camere a gas. Non ci sono testimoni, perché nessuno è mai tornato vivo dalle camere a gas. Ma ho cercato di toccare con mano. È stato un lavoro immane, durato 12 anni, estenuante fisicamente ed emotivamente. Anche per questo, dovetti in qualche modo mettere da parte la testimonianza su Mulmerstein. Shoah è un film epico sull’ineluttabilità della tragedia della morte, con una tensione che non cessa mai. Mentre quanto ho fatto su Mulmerstein non è epico». A questa differenza è legata pure la scelta di Lanzmann di rinunciare in parte nel suo ultimo film ad uno degli assiomi estetici ed etici di Shoah, ovvero il rifiuto categorico del materiale d’archivio, espressione del punto di vista dei carnefici: «L’ultimo degli ingiusti contiene anche delle fotografie. Non sono prigioniero di Shoah, che doveva essere realizzato in un certo modo. Quest’ultimo film è diverso, pur assomigliando per certi aspetti a Shoah». Lanzmann non crede affatto alle tesi sull’Olocausto di Hannah Arendt: «Ha detto delle sciocchezze. La banalità del male è la banalità delle sue stesse conclusioni. Non è vero che chiunque può essere persecutore o vittima. Prendiamo il caso di Adolf Eichmann. Non fu un piccolo burocrate. Fu un demonio, come diceva Mulmerstein. Ho capito tutto questo realizzando Shoah e verificando quanto è difficile interrogare delle persone che hanno vissuto situazioni di sofferenza estrema».L’approccio più giusto di chi vive verso l’indicibile ha pure segnato la controversia fra Lanzmann e Steven Spielberg, dopo l’uscita di Schindler’s List, accusato dal francese di spettacolarizzare il dramma con i codici della fiction hollywoodiana. Ma l’anno scorso, a Cannes, i cineasti si sono incontrati: «Il mio film era nella selezione ufficiale francese, ma fuori competizione. Avevano paura. Credo proprio a causa di Spielberg e probabilmente anche della lunghezza del film [220 minuti, ndr. Cercavano di nascondermi Spielberg, ma alla fine ci siamo trovati un po’ per caso. Abbiamo cenato assieme per la prima volta e mi ha detto subito: "Lei mi disprezza". Ho risposto: "No". C’è stato fra noi un conflitto profondo, d’ordine ontologico, su cosa il cinema e la Shoah possono fare l’uno dell’altro. Gli ho dato il mio libro La lepre della Patagonia. E benché presidente di giuria, ne ha letto subito 4 capitoli in pieno festival, inviandomi il 23 maggio un primo messaggio». Da allora, non cessano più di scriversi, come se avessero ormai bisogno l’uno dell’altro. Lanzmann mostra alcune missive firmate a mano dal collega americano, piene di elogi verso il vecchio "avversario" francese. Anche i dissidi più profondi possono forse tramutarsi in amicizia, in nome della memoria e della speranza.
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