martedì 10 gennaio 2023
Uno studio di Scagno sul celebre storico delle religioni: per lui solo chi proviene da popoli sempre schiacciati dalla storia, come il suo, intende pienamente il significato ultimo della sacralità
Mircea Eliade

Mircea Eliade - archivio

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Mircea Eliade (1907-1986) fu sicuramente una delle intelligenze più brillanti e originali del Novecento. I suoi studi sul fenomeno religioso, che egli sottrasse tanto alle angustie confessionali e alle astrattezze teologiche quanto ai riduzionismi secolarizzanti, sono stati rivoluzionari e continuano a far discutere. Homo religiosus, ierofania, archetipo, dualismo sacro-profano, sono concetti che dai suoi libri, primo fra tutti il celebre Trattato di storia delle religioni (1949), sono entrati nella cultura internazionale e nel bagaglio culturale di molti di noi. Ma Eliade fu molto di più. Romanziere, novelliere, diarista, memorialista, giornalista, lettore onnivoro e scrittore fluviale, passò attraverso culture e lingue diverse (ne praticava agevolmente una decina), dalla Romania dove nacque all’Italia e all’India, da-l-I’Inghilterra e dal Portogallo, dove visse durante la guerra, alla Francia, che elesse come terra dell’esilio, fino all’approdo negli Stati Uniti, all’università di Chicago, da dove la sua fama dilagò nel mondo intero. Sfiorò più volte il premio Nobel, che gli sfuggì quando emerse l’ombra oscura della sua vita: nel decennio prebellico era stato molto vicino all’estrema destra romena di Corneliu Codreanu e al movimento della Guardia di ferro. Il suo amico Saul Bellow rilanciò perfidamente l’accusa (ma quando Eliade, morto da tempo, non avrebbe potuto replicare) ritraendolo in uno dei personaggi - Radu Grielescu - del suo romanzo Ravelstein. Insomma, una personalità poliedrica, non priva di macchie e talvolta indecifrabile, con qualche aspetto megalomane, come provano vari passaggi dei diari, ma ricca di fascino, del quale sono testimonianza le traduzioni dei suoi libri anche nelle lingue più remote. È sempre più chiaro, tuttavia, man mano che la sua vita si allontana nel tempo, che appartiene per intero alla storia e alla tragedia novecentesca, al centro della quale ci fu il secondo conflitto mondiale. Egli lo visse prima a Londra e poi a Lisbona, dove era stato inviato come addetto culturale della legazione diplomatica romena. Finita la guerra, quando fu chiaro che in Romania si sarebbe insediato un regime sovietico, che egli vedeva come un’irreparabile tragedia, scelse l’esilio, prima in Francia e poi negli Stati Uniti. L’esperienza dell’esilio è dunque al centro della vita interiore eliadiana. Ce lo ricorda ora Roberto Scagno, uno dei suoi più autorevoli interpreti su scala internazionale, già professore di Lingua e letteratura romena all’Università di Padova, in un libro che raccoglie gli studi che gli ha dedicato in più di quarant’anni: Libertà e terrore della storia. Con altri studi sull’opera e il pensiero di Mircea Eliade, a cura di A.Barbieri, D.O. Cepraga, I. Cosma, N.Perencin (Edizioni dell’Orso, pagine XXVIII+424, euro 40,00). Sono una ventina di saggi, di varia lunghezza, che affrontano tutti i temi biografici, intellettuali e scientifici suscitati dallo studioso romeno. Dalla sua idea che la fuga dal “terrore della storia” sia all’origine del senso religioso, alla teoria degli archetipi, modelli esemplari che si ripetono nel mito e si riattualizzano nel rito. Dalle ierofanie, le manifestazioni del sacro che erano tipiche della religiosità premoderna, ai loro camuffamenti profani nell’universo desacralizzato dell’uomo contemporaneo. Dal dichiarato e sbandierato antistoricismo, che suscitò contro di lui velenose reazioni nella cultura di sinistra, specie in Italia, al suo complicato e spesso indecifrabile rapporto con la tradizione cristiana, nella quale pure era nato e cresciuto. D’ora in avanti queste pagine di Scagno saranno l’indispensabile vademecum per avvicinare l’intellettuale romeno. Ma l’esilio, l’abbandono definitivo della patria – dopo il 1945 non tornò più in Romania – della quale aveva esaltato in numerosi scritti la ricchissima cultura popolare, rimase al fondo della sua esperienza di vita, che Scagno ripercorre potendosi valere di una «padronanza assoluta del milieu romeno (specie bucarestino) degli anni Trenta, con una stupefacente conoscenza di prima mano di libri e di uomini, di periodici e di circoli culturali», come scrivono giustamente i curatori del libro. Di questi saggi di Scagno, il più pregnante per comprendere l’ideologia di Eliade ci sembra perciò l’introduzione al Diario portoghese (pubblicato dalla Jaka Book nel 2009), nel quale il tema dello sradicamento e della rabbia per l’ennesima tragedia che si stava abbattendo sui popoli dell’Est europeo emerge in tutta la sua pregnanza. Mentre la sua patria sta cadendo sotto il giogo staliniano, Eliade capisce di dover fuggire verso paesi liberi, ma capisce che la sua “romenità” non verrà mai meno e che molte delle idee che intende sviluppare dove la circolazione intellettuale non è oppressa, sono figlie della cultura “minore” di un Paese dove la cultura è sempre stata calpestata e si è rifugiata nella sacralità dei miti o nelle evasioni della fantasia. Il Mito dell’eterno ritorno – è il titolo dell’opera apparsa nel 1949 che Eliade riteneva compendiasse meglio il suo pensiero – ci ricorda che tutte le religioni mirano a vincere il peso spesso insopportabile della storia, cioè il dolore, la sofferenza, l’oppressione, la morte, o attraverso la ripetizione ciclica del tempo, come nelle credenze tradizionali, o attraverso la sua palingenesi finale, quando tutto si ricomporrà in Dio, come nel cristianesimo. Ma solo chi proviene da popoli sempre schiacciati dalla vicenda storica, come la Romania dove era nato Eliade, cioè da popoli per i quali la storia non è stata mai motivo di orgoglio bensì solo fonte di “terrore”, intende pienamente questo significato ultimo della sacralità religiosa. Di qui il legame indissolubile con la patria perduta, che fornisce alla sua opera un inaspettato motivo di attualità, in questi nostri tempi in cui la fuga dalla terra natia e lo sradicamento culturale sono diventati esperienza e tragedia per milioni di uomini. Bisogna aggiungere che soltanto dopo la fine del regime comunista di Ceausescu, avvenuta nel 1989, quando Eliade era morto ormai da tre anni, il suo nome ha potuto tornare in Romania da trionfatore, dopo che per quasi mezzo secolo era stato bandito. Ma con un’aggiunta, che rappresenta un ulteriore tassello, tragico e misterioso, benché indiretto, nella biografia dell’intellettuale romeno forse più celebre del XX secolo. Egli aveva scelto come suo successore accademico un giovane compatriota che aveva percorso il suo stesso itinerario biografico e intellettuale: Ioan Petru Culianu (1950-1991). Questi era fuggito a vent’anni dalla Romania con il mito di poter raggiungere un giorno il famoso connazionale. Era vissuto da esule in Italia, in Francia e in Olanda, affermandosi come una delle voci più originali negli studi di storia delle religioni e aveva finalmente raggiunto Eliade negli Stati Uniti, ereditandone la cattedra e diventando il suo esecutore testamentario. Una strepitosa carriera, stroncata nel nel 1991 quando Culianu fu inspiegabilmente assassinato con un colpo di pistola in un locale dell’Università di Chicago, quella dove insegnava e dove aveva insegnato Eliade stesso. L’assassino non è mai stato individuato, ma tutti gli indizi portano a concludere che il delitto fu architettato in Romania, o fra i ranghi della disciolta ma non dispersa Securitate comunista, o fra i nostalgici della vecchia Guardia di ferro fascista.

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