venerdì 28 gennaio 2011
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Se si dovesse chiudere in una formula ciò che Alex Langer ci ha insegnato, essa non potrebbe che essere: piantare la carità nella politica. Proprio piantare, non inserire, trasferire, insediare. E cioè farle metter radici, farla crescere, difenderne la forza, la possibilità di ridare alla politica il valore della responsabilità di uno e di tutti verso «la cosa pubblica», il «bene comune», verso una solidarietà tra gli umani e tra loro e le altre creature secondo il progetto o sogno di chi «tutti in sé confederati estima/ gli uomini, e tutti abbraccia/  con vero amor, porgendo/ valida e pronta ed aspettando aita/ negli ultimi perigli e nelle angosce/ della guerra comun». Dico carità nel preciso senso evangelico, poiché Alex era un cristiano, dei non molti che cercavano di attenersi agli insegnamenti evangelici che era possibile conoscere in quegli anni nel «movimento» (e oggi sono ancora di meno) e non, come tanti di noi che gli fummo contemporanei e amici, di fragilissime convinzioni «marxiste» oppure, al meglio, mossi confusamente da una visione solo etica del cristianesimo. La «diversità» di Alex, la sua superiorità sui suoi amici e compagni, gli veniva anche da una storia famigliare più ricca, a cavallo tra lingue e culture, tra Germania e Italia e tra ebraismo e cattolicesimo, ma nessuno vide mai in questo il marchio del privilegio, poiché essa era caratterizzata in lui da una convinzione di umiltà reale e non esibita, non appariscente, dalla propensione all’ascolto degli altri, di tutti, dalla libertà dei collegamenti e dalla scelta di «far da ponte». Quante volte Alex Langer non ha teorizzato nei suoi testi la funzione e l’imprescindibile necessità dei «ponti»? Ricordava tanti anni fa Piero Calamandrei fondando, a guerra appena conclusa, una rivista che si chiamava Il ponte, il significato metaforico ma anche concreto dei ponti, da riedificare dopo le distruzioni della guerra che si era accanita a distruggerli. Ponti veri, che gli uni o gli altri avevano fatto saltare, e che dovevano mettere di nuovo in comunicazione e in «commercio» persone e città, culture e territori.Ponti ideali, che potessero permettere ai vinti e ai vincitori, tutti infine perdenti, sopravvissuti ai conflitti e alle stragi e cioè al dominio della morte, di ritrovare nell’incontro e nel dialogo la possibilità di un futuro migliore. (L’attaccamento di Alex alle sue radici regionali e la sua ambizione cosmopolita gli hanno permesso una concretezza precisa, mai parolaia, e una visione ampia, internazionale, nel filone di quell’utopia che era stata per un tempo di una parte del movement americano, quella che diceva di doversi preoccupare ostinatamente di due ambiti da tenere strettamente collegati tra loro: «Il mio villaggio e il mondo».) Il progetto semplicissimo e immenso di far da ponte tra le parti in lotta, che ad Alex costò infine la vita, è fallito e continua a fallire in un mondo dove le incomprensioni permangono e prosperano gli odi, sollecitati dai diversi poteri e dal peso dei torti ricevuti e fatti, di una memoria di gruppo che, invece di rendere aperti, rende più chiusi alle ragioni degli altri. Poiché troppa memoria può uccidere alla pari della (nostra, italiana) assenza di memoria. E tuttavia il messaggio di Langer è stato fino all’ultimo chiaro: se anche c’è chi cade, chi non regge più il peso della storia e della solitudine (forse ci si uccide perché ci si sente o si è rimasti soli – ma alcuni, come i vecchi e i malati, perché si è tagliati via dalla vita – più che per l’oggettiva debolezza e insicurezza del genere umano e per la fatica di dover continuamente ricominciare), bisogna imparare dall’esperienza quel che se ne può ricavare, e andare avanti. Non perché «si spera», ma perché «si ama»: e la «carità» è allora il centro di tutto, come voleva san Paolo - più della speranza e più della fede. Alex Langer ha svolto una funzione di ponte in due direzioni prioritarie: quella di accostare popoli e fazioni, di attutirne lo scontro e di promuoverne l’incontro, e quella dell’apertura a un rapporto nuovo tra l’uomo e il suo ambiente naturale. E se nel primo caso, quello più determinato dalle pesanti contingenze della storia (per Alex, la guerra interna alla ex Jugoslavia), si trattava di far da ponte ma anche da intercapedine, da camera d’aria dove potesse esprimersi un dialogo assai difficile, nel secondo si trattava piuttosto di additare nuovi territori all’azione politica responsabile, allargandone il significato da città a contesto, da polis a natura. Se sul fronte della pace e della convivenza tra umani di diversa etnia o religione o parte politica Alex è stato un continuatore, egli è stato su quel secondo fronte un precursore, uno dei più persuasi pionieri dell’indispensabilità di una visione ecologica dell’agire politico.Ha visto tra i primi l’arrivo della novità, come lo Zaccheo del Vangelo che si portò nel luogo più avanzato del suo villaggio e nel suo punto più alto per poter vedere per primo l’arrivo del Messia, e cioè della Novità, ed è stato confortato in questo dalla sua conoscenza e vicinanza a uno dei pochi veri profeti dello scorso secolo, il prete e filosofo che si faceva chiamare Ivan Illich. Tra l’antico e l’eterno del messaggio cristiano e la verde novità dell’ecologia, tra le esigenze della pace (gli uomini) e quelle dell’armonia (degli uomini con la natura) tra loro fittamente intrecciate, sempre più interdipendenti, Langer si è mosso quotidianamente, attento al presente ma cosciente del passato e straordinariamente aperto al futuro, al possibile e al doveroso dei compiti della politica (della militanza, della persuasione). Contro il gioco chiuso del potere. E contro i ricatti paralleli di un’impazienza non meditata e di una lentezza non ipocrita: nell’avvicendarsi che appartiene alla storia delle fasi di stasi e di quelle di febbre, occorre prepararsi nella stasi per saper meglio muoversi nella furia che, prima o poi, si scatenerà.
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