venerdì 15 dicembre 2023
In mostra al Museo Civico il racconto della fotografa fra i braccianti sfruttati, le madri e i figli nell'indigenza, una umanità in lotta per la sopravvivenza dopo la crisi del 1929
Dorothea Lange in California nel 1936 (autore anonimo)

Dorothea Lange in California nel 1936 (autore anonimo) - / Library of Congress

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Nel 1929, quando fa il viaggio in America, lo scrittore Georges Duhamel è una delle menti lucide della Francia che ha vissuto lo sconquasso della Grande Guerra e tutte le conseguenze sociali e politiche che ha comportato, a cominciare dalla crisi economica che ha posto le basi per la nuova guerra una decina d’anni dopo e ha generato, a proposito dell’America, la Grande Depressione. Arruolatosi come medico chirurgo alla scoppio della prima delle due guerre mondiali, Duhamel aveva ricevuto nel 1918 il premio Goncourt dopo aver pubblicato due libri-testimonianza sui postumi dell’immane tragedia europea: Vie des martyrs e Civilisation. La questione tecnologica era un punto fermo della sua polemica, e il libro che ricaverà dal viaggio in America Scene della vita futura scatenerà un acceso dibattito rappresentando una delle prime riflessioni sulla nuova “civiltà delle macchine” che sta prendendo piede anche in Europa, grazie a una cultura modernista che intendeva portare nelle città una cultura abitativa “razionale”. L’America era, per Duhamel, il Leviatano che insidiava anche il Vecchio Continente: si può resistere all’onda travolgente che incarna la civiltà delle macchine, si chiedeva lo scrittore. E i primi a farne le spese furono milioni di americani poveri.

La fotografa che più ha celebrato all’epoca il nuovo culto del progresso portato dalla tecnologia e dall’industria fu Margaret Bourke-White, con alcune immagini che hanno fatto epoca, come quella pubblicata sulla copertina di “Life” il 23 novembre 1936 che immortala i lavori ormai conclusi per costruire la diga di Fort Peck. Bourke-White sposa totalmente la società americana dell’aereo, dei grattacieli, delle acciaierie, della catena di montaggio nell’industria. Vicine nella sensibilità, ma lontanissime nello sguardo sul mondo, negli stessi anni in cui Bourke-White celebra la macchina con un impeccabile talento estetico, un’altra fotografa americana, Dorothea Lange, racconta con le sue immagini l’altra America: quella dei braccianti sfruttati, delle madri smagrite dalla mancanza di cibo che danno quel poco che trovano ai figli affamati, per esempio le verdure bruciate dal gelo e scartate dal raccolto, le lunghe strade che portano da un lato all’altro dell’America uomini e donne che stentatamente cercano di sopravvivere senza cedere alla disperazione, anzi spimnti da un interno furore: la celebre fotografia Migrant Mother che la Lange esegue nel 1936 a Nipomo in California, fa ancora una volta da copertina ed emblema della mostra ora allestita sui due piani del Museo Civico di Bassano del Grappa (fino al 21 gennaio). La didascalia dell’immagine dà anche il tono dell’impegno etico di questa grande fotografa: «Raccoglitori poveri di piselli in California. Madre di sette figli. Età: trentadue anni».

Dorothea Lange, 'Madre migrante' (Nipomo, California1936)

Dorothea Lange, "Madre migrante" (Nipomo, California1936) - / Library of Congress

Doveva sembrare, a quei poveri braccianti che si trascinavano appresso una prole incapace di pensare ad altro che ai morsi della fame, costretti a barcamenarsi in condizioni di promiscuità e privi delle minime norme igieniche, dove malattie e morte rendevano quasi fatale la loro stessa lotta per la vita, ecco, doveva sembrare loro più che l’apocalisse, l’abbandono di Dio, al cui posto il nuovo culto del progresso che meccanizzava anche l’agricoltura rendeva la ricerca del lavoro una lotta darwiniana spinta dall’istinto di conservazione. Eppure, le immagini della Lange non mostrano il benché minimo segno di retorica, hanno il distacco di chi osserva e vuole dare una risposta oggettiva a ciò che la realtà mette sotto gli occhi. Curata da Walter Guadagnini e Monica Poggi, con un catalogo edito da Dario Cimorelli, questa mostra testimonia assai bene le ragioni che possono spingere un fotografo a fare dell’immagine un mezzo conoscitivo della realtà. Guadagnini, giustamente, definisce le azioni fotografiche della Lange “una documentazione”. Nate per questa ragione, danno anche il polso di una società. Un’opera funzionale alla conoscenza del governo o agli storici, ma prima ancora all’America che si crede la patria di tutte le opportunità (come recita la Costituzione degli Stati Uniti).

Dorothea Lange fotografava con una Rolleiflex a pozzetto, un apparecchio fotografico che si usa guardando il mirino da sopra e tenendo la macchia circa all’altezza del ventre. Come se fotografare fosse un sentire nelle viscere ciò che si muove all’esterno, incurvandosi per poter tradurre in inquadratura quelle vibrazioni interiori. Credo di capire che cosa poteva significare per Dorothea Lange quel modo di fermare la realtà in un reticolo quadrato, perché conosco la differenza di atteggiamento che occorre con una macchina a pozzetto e con una 35 mm. Nel 1960 Lange confessò il limite per ogni fotografo: il sentimento. «Concetto difficile da gestire». Ciò che se ne sta racchiuso in una persona che possiede un corpo: «Abbiamo tutte quelle parti che ci danno forma. E vi sono molte cose che non sappiamo. Ma la spiegazione dell’opera di una persona s’impernia proprio su una successione di fatti accidentali». L’accidente allora non è più una fatalità.

Dorothea Lange, 'Verso Los Angeles' (1937)

Dorothea Lange, "Verso Los Angeles" (1937) - / Library of Congress

Gli album di fotografie scattate nel Midwest segnato da cataclismi naturali, sono, scrive ancora Guadagnini, il documento dell’America «delle strade attraversate da centinaia di migliaia di persone in fuga dalla povertà dirette verso un’altra povertà». L’America rooseveltiana degli anni Trenta, col programma Farm Security Administration (Fsa) durato circa cinque anni sotto la direzione operativa del’economista Roy Stryker, coinvolse giornalisti, fotografi, artisti chiedendo loro report che permettessero di conoscere in modo più fedele lo stato dell’Ametrica seguito alla catastrofe di Wall Street (dei cui riflessi si avvalse John Steinbeck mentre scriveva Furore). Il fine era portare aiuti per ridurre la povertà rurale; l’album della Lange avrebbe dovuto servire a ottenere finanziamenti per costruire campi abitativi essenziali ma dignitosi per i lavoratori migranti in California (una questione che si ripropone coi migranti di oggi verso l’Europa). Il resoconto in immagini conta circa 250mila fotografie, realizzate fino ai primi anni Quaranta e oggi conservate alla Libreria del Congresso. Molte sono di Dorothea Lange, e una minima parte, ma sufficiente a farsi l’idea delle condizioni di tanti all’epoca, si può vedere a Bassano.

La “naturalezza” con cui la fotografa americana rende situazioni così drammatiche e al limite della barbarie sociale, erano certamente frutto di un lungo lavoro preparatorio, ma anche di una intensità emotiva che non è quasi mai ragionamento: ci si domanda sempre, spiega Guadagnini, come si possa rappresentare il male o il brutto con immagini dal “fascino indicibile”. Ne parlava già Aristotele e poneva come limite invalicabile l’orrore, argomento che ritroviamo nella modernità come un limite infranto ogni giorno dalle immagini che ci arrivano non soltanto dalle guerre, ma anche dall’incrudelirsi della violenza e dalle patologie sociali. Dorothea Lange risponde alla richiesta dell’Fsa esprimendo «uno sguardo asciutto e al contempo partecipe, sempre e comunque alla ricerca della massima evidenza dei fatti, del valore testimoniale dell’immagine ». Ma tragedia e testimonianza in queste fotografie non negano il valore di attrazione che passa da una dimensione estetica: composizione perfettamente a registro, scelta dei soggetti, situazioni umane: il risultato è quello di immagini che toccano nel profondo.

La tragedia può essere bella? Ma se Lange «nulla concede all’estetica», tuttavia una estetica naturale, per così dire, si trasmette nell’immagine di quella madre migrante che ha venduto le gomme della sua automobile per dare qualcosa da mangiare ai suoi figli: «mi avvicinai a lei come attratta da una calamita». Ecco, il motore delle fotografie che la Lange realizza in quel decennio o quando fotografa i cittadini giapponesi che vivevano negli Usa reclusi dal governo americano dopo l’attacco di Pearl Harbor: è chiaro da che parte stava la fotografa, anche se doveva fornire una “documentazione” su incarico del proprio governo. Dichiarò a questo proposito che fotografando «per quanto ho potuto la vita normale », in realtà aveva fotografato l’atto stesso del fotografare: il perché e il come, dove il cosa invece è, appunto, ciò che rende l’oggettività.

«Il sublime che deriva dal naufragio di una società », scrive il curatore: ma la modernità ci ha dimostrato in più occasioni che il sublime segue strade diverse. Può essere quella dell’indicibile bellezza, del tragico dentro l’apollineo; ovvero quella della terribilità che diventa guardabile in ragione di canoni estetici che rendono il fascino dionisiaco. Nel Romanticismo le strade percorse seguendo, alternativamente, Raffaello o Michelangelo. Nel caso della Lange, ciò diventa possibile quando l’immagine supera la sua stessa oggettività di testimonianza.

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