giovedì 14 luglio 2011
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America vs. America (Laterza) è il titolo dell’ultimo libro di Lucio Caracciolo, direttore di Limes. La fine della Guerra fredda ha fatto emergere il "disordine globale", come ha osservato qualcuno. In questo scenario l’America è passata in pochi anni dall’entusiasmo del vincitore, ai dilemmi di chi è chiamato – quasi obtorto collo – a darsi una nuova identità politica. Dopo il 1989 e, soprattutto, dopo l’11 settembre 2001, gli Stati Uniti sono in guerra con se stessi, nel tentativo di capire se è nelle loro possibilità continuare a "reggere" il ruolo internazionale di unico attore di scala globale. Professor Caracciolo, il suo libro si articola per "tesi": nella prima sostiene che l’America non ha vinto la guerra fredda: cosa significa?«E’ il paradosso, per cui l’America non l’ha vinta perché non aveva previsto di vincerla. L’Urss era più utile come nemico contro cui combattere; dopo l’iniziale entusiasmo, gli Stati Uniti si sono infatti resi conto dell’enorme vuoto lasciato della scomparsa del blocco sovietico: improvvisamente il sistema internazionale è divenuto "unipolare per sottrazione" (se vogliamo usare gli schemi concettuali della Guerra fredda). Di conseguenza sono rimasti l’unica superpotenza globale: ciò li ha chiamati a responsabilità per cui non sono preparati e che – di fatto – non sono in grado di sostenere».Nella seconda tesi lei sostiene che l’Europa ha perso la guerra fredda "perché ha perso l’America": ci vuole spiegare?«Mi riferisco all’Europa occidentale, quella al di qua della "cortina di ferro". Prendiamo il nostro Paese: quarant’anni di Guerra fredda gli hanno permesso di vivere "al di sopra delle proprie possibilità". La protezione dell’alleato americano ci ha garantito sicurezza senza ingenti spese militari; esportavamo nel mondo occidentale grazie ai vantaggi di una moneta debole e di un costo del lavoro basso, se comparato a quello degli altri paesi ricchi. Il crollo del muro di Berlino ci ha rivelato quanto tutto questo fosse un plus per noi e un minus per altri Paesi europei (la Polonia per esempio). Sono dieci anni che non cresciamo? In questi rilievi, a mio avviso, si trovano molte spiegazioni. Dal punto di vista geopolitico abbiamo beneficiato di una rendita di posizione, perché eravamo "diversi": oltre al posizionamento geografico all’interno del Mediterraneo, avevamo il più forte Partito comunista d’Occidente e, nel contempo, il Vaticano». «O America, o impero», lei afferma nel libro: gli Stati Uniti sono incompatibili con una vocazione imperiale? Durante la Guerra fredda non l’avevano?«Può essere. In ogni caso, mi sono servito della nozione classica di impero, che richiede un limes territoriale: in questi termini, gli Usa non lo erano durante la Guerra fredda. Se vuole l’America aveva una vocazione imperiale in altri termini: si poneva come una sorta di benchmark , il parametro di riferimento, per il resto del mondo (almeno occidentale), indicando quella che doveva essere la way of life del mondo libero. Dopo il 1989, e ancora di più dopo il 2001, si è resa conto di trovarsi in una scomoda posizione di "sovraesposizione imperiale": vi sono continuamente nuove incombenze e le risorse non sono mai sufficienti. È necessario quindi ripensare il proprio posizionamento internazionale: George Bush ha cominciato a lavorarci nell’ultima parte del secondo mandato; nell’amministrazione Obama ne è consapevole Bob Gates, il ministro della Difesa, che però fra poco andrà in pensione». Sul piano strategico, come si pongono i rapporti dell’America con la Cina? In che misura incide l’assorbimento da parte cinese del debito pubblico statunitense?«Vivono entrambi una condizione di necessitata collaborazione, perché l’interdipendenza economico e finanziaria è molto elevata. La Cina - di fatto - ha finanziato le ultime guerre americane, perché non aveva (e non ha) alcun interesse a vedere collassare gli Stati Uniti». Quando (e se) dovesse mai esserlo, come sarà il mondo sotto l’egemonia cinese? «Non sono affatto convinto che questo sia lo scenario che ci attende. I cinesi non hanno le caratteristiche per essere una potenza egemone a tutto tondo: non hanno, per esempio, risorse di soft power, perché non sono un modello culturale come lo sono (stati) gli Usa. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla "diffusione della potenza" e quindi alla moltiplicazione degli attori rilevanti sulla scena internazionale, con una conseguente complessificazione geopolitica. La scena internazionale richiede oggi di essere suddivisa in teatri regionali, per essere analizzata razionalmente; l’idea che una o due potenze possano governare il mondo è tramontata con la fine della Guerra fredda».Il mondo quindi… non è piatto, come ci dice lei nell’ultimo capitolo!«Certo. Lo scrivo in chiave polemica contro il mainstream degli anni Novanta, che ci raccontava che la globalizzazione avrebbe reso il mondo sempre più omogeneo: Thomas Friedman da ultimo. Ottimismo (o vuota ingenuità) che nella analisi internazionali finalmente sta lasciando spazio ad un maggior realismo».
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