mercoledì 11 luglio 2012
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La consapevolezza di essere «una poetina media / normale / da due righe e mezzo / sulla garzantina universale» (dieci su quella della Letteratura) non le ha però impedito di circondarsi, negli anni, di un pubblico crescente e motivato, formato da lettori senza età. In particolare, Vivian Lamarque ha saputo tradurre, con efficacia pari alla sorprendente naturalezza del suo stile, il doloroso impatto con la realtà in quella morbidezza incantata che muove le favole, dove accanto all’aitante principe azzurro è facile incontrare anche qualche orco dagli appetiti mai sopiti o il solito lupo impenitente, sempre a caccia di spensierate, succulente prelibatezze.Quali sono gli ingredienti necessari per la realizzazione di una buona poesia?«Rispondo in versi: "E’ quasi facile fare una poesia / basta prendere un pezzetto / di carta e una matita, è come / per la terra fare un filo d’erba / una margherita"».Anche le poesie, come gli alberi, hanno rami, radici, possono fiorire, produrre frutti e ombra?«Sì. E come foglie possono cadere. Non tutte sono sempreverdi, alcune che credevi eterne sbiadiscono, rinsecchiscono, si fanno presto dimenticabili, oppure come frutti si fanno divorare dal tempo e poi quando le cerchi non ci sono più».Si è mai persa nel bosco delle parole? «Mi perdo più facilmente nei boschi della vita, per anni non ho fatto altro. Per i boschi di parole sono sempre stata più armata. Armata soprattutto di gomme da cancellare. Ne ho dappertutto. Quando le compri sono candide, meravigliose, eppure in poco tempo ingrigiscono anche loro come le foglie. (Però le svelo un segreto: se taglia la gomma in due con un coltello, l’interno rispunta candido come un latte, come un’anima)».Tra le tante parole che ha inserito nei suoi versi, ve ne sono alcune che predilige in modo particolare, con cui ha maggiore dimestichezza o soltanto instaurato una sorta di colloquiale confidenza? «Sì, ho delle favorite. Ogni tanto ho la tentazione di rinnovarle come un sultano le donne nell’harem, ma loro continuano ad amarmi, mi sono fedeli, mi corteggiano. Tra le più assidue gli aggettivi gentile, lontano, la rima vita / margherita. Ho anche un amore contraccambiato da anni con un segno di punteggiatura: il punto interrogativo».Il lavoro del poeta è basato su una continua selezione di parole. Dove finisce tutta la silenziosa montagna di sillabe e vocali che lo scrittore di versi scarta? Come immagina questo luogo, questa sorta di limbo in cui si accumulano i termini non utilizzati?«Le parole conoscono bene i loro polli-poeti. Nemmeno si presentano dove sanno di non essere gradite. Le non predilette della Lamarque sono le predilette di altri e vanno dunque a bussare alla loro porta. Ce ne sono comunque anche lunghe file in lista d’attesa, chiedono di essere adottate». Una volta scritta, la poesia richiede cure particolari? Lei quali attenzioni rivolge ai versi che fa scivolare sulla carta?«Le scrivo. E subito le abbandono. (Come fecero con me?). Si arrangino. Una qua e una là, ogni tanto ne spunta una decina da un cassetto, da un quaderno, da un file, le faccio a pezzetti oppure me ne prendo cura, le salvo, poi le dimentico di nuovo, le riabbandono. Quando gli editori mi chiedono di fare un nuovo libro, che fatica recuperarle, lavarle, vestirle, pettinarle, renderle presentabili, raggrupparle e soprattutto che paura esporle. Verranno accettate? Adottate? Abbandonate? Non mi crede? Eppure è così, nonostante l’Oscar Mondadori con tutte le mie poesie abbia venduto uno sproposito di copie».Dopo esserne salita, le è difficile scendere dalla cullante altalena delle parole scritte?«Ricordo una poesia scritta dopo un pomeriggio disperato della mia vita. Si intitola Ballata degli occhiali neri. Era notte (eccezione, raramente scrivo di notte), era una poesia lunga (altra eccezione), continuavo a rileggermela ad alta voce, non riuscivo più a "scenderne", come Lei dice, ma non era un’altalena, era un ottovolante. Di altalena posso parlare a proposito di una filastrocca sulla neve (giornata lieta questa volta), che quando ero bambina scendeva così tanto "che diventava bianco tutto / che diventava tutto bianco"».Addormentarsi sussurrando poesie: le è capitato, a volte?«Sussurrandole no, ma scribacchiandole sì».Di cosa è fatta la poesia? Della stessa sostanza dei sogni?«Per quanto mi riguarda, di stratificazioni geologiche (se non di millenni di decenni) di dolori miei e altrui».Ha trovato qualche relazione tra il linguaggio dei fiori e quello poetico? «Anche i fiori, come la poesia, parlano a pochi. La maggioranza degli uomini non ne conosce la lingua, né è interessata a impararla, tantomeno si lascia coinvolgere dai loro argomenti».C’è un verso - suo o di altri - in cui le piacerebbe abitare, una fiaba dove vorrebbe vivere?«Ho cambiato tante case, mi piace traslocare, è un po’ di tempo che non lo faccio, mi ha dato un’idea. Comunque, sono due i posti di fantasia in cui amerei risiedere: nella casa sull’albero della mia fiaba La bambina che mangiava i lupi e tra i rami più alti della mia poesia L’albero delle ciliegie». «Cercasi casa / cercasi casa con sole / con sole fin dal mattino / casa con dentro un bambino / con madre con padre / secondo te a chi assomiglia / cercasi casa / con dentro famiglia." Nella sua disarmante ma incantevole semplicità, questa poesia potrebbe essere presa quale manifesto di chi crede ancora nell’efficacia dell’istituzione familiare. Provenendo da una tribolata vicenda personale, che ha segnato profondamente la sua storia umana e artistica, cos’altro si sente di aggiungere su questo argomento?«La poesia appartiene a una sezione intitolata "Cercasi". Sono una "cercatrice" nata e lo sarò fino alla fine. Ho iniziato cercando madri padri fratelli sorelle consanguinei di ogni genere, ne ho inseguito senza pace le tracce, ho sacrificato anni centrali della mia vita in questa ossessiva ricerca. Li ho rintracciati quasi tutti, uno a uno. Sì, ho trovato i singoli, ma non l’insieme. È il mio arto mancante. Nonostante ora mi avvicini ai 70 e sia madre e nonna, continuo a sentire il mondo diviso per due, col resto di uno, io».Spesso l’idea che il lettore si fa del poeta leggendo le sue opere, non coincide poi con quella reale. È mai rimasta delusa dalla conoscenza diretta con certi autori? Ha avuto occasione di imbattersi anche in poeti particolarmente insopportabili?«Oh sì, eccome! Forse siamo tutti quanti insopportabili. Ma non è un problema, frequentateci poco e leggeteci tanto! Per fortuna i miei prediletti sono quasi tutti morti e corro dunque meno rischi».È possibile adottare (anche a distanza) poesie di altri poeti, senza oscurarne in alcun modo la paternità? In che modo?«Per esempio cercando di tradurli con la più appassionata rispettosa amorosa fedeltà/infedeltà possibile».Chissà se da qualche parte esiste una specie di «Campo dei Miracoli» dove crescono grandi piante cariche di ogni genere di poesie… Se davvero ci fosse, cosa le piacerebbe trovarci?«C’è un campo vicino a Modena dove tanti anni fa piantarono giovani alberi, ogni poeta poteva scegliere il suo, io scelsi un ciliegio. Crebbe, e Alberto Sitta (il fondatore della rivista "Steve"), che non li perdeva di vista, mi disse che il mio era cresciuto bene, ma su due diversi tronchi. ("Il primo mio amore il primo mio amore / erano due. / Perché lui aveva un gemello / e io amavo anche quello.")».

 

L'INEDITO

CUCIVI

Cucivi così bene,e saldamente, comecol fil di ferro.I miei punti invece tu andata, non tengono niente, sbaglio spolette,imbastiture, gli aghicadono i nodi si snodanoi bottoni appena attaccatisi staccano gli orliondeggiano, come scuoteresti la testa.Tu andata mi si è scucitoil guardaroba, il mondo.Vivian Lamarque

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