giovedì 19 maggio 2011
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Si chiama Stefano, è stato un calciatore professionista per 15 anni, ruolo attaccante: anche lui è malato di Sla (Sclerosi laterale amiotrofica) o Morbo di Gehrig, ma non è Stefano Borgonovo. E comunque della malattia e del se dipenda o meno dal calcio non ne vuole parlare…». Questa telefonata l’abbiamo ricevuta alla redazione di Avvenire qualche anno fa. Noi allora, come sempre, abbiamo rispettato la volontà dell’uomo e della sua famiglia. Ora però le cose sono cambiate e Stefano Turchi ci ha aperto le porte di casa sua, a Grumello del Monte. Nella bergamasca, lui che è nato a Pistoia (il 13 gennaio 1969), c’è arrivato per amore di sua moglie Simona e le ultime sgroppate da tornante di fascia, le ha fatte vedere tra i dilettanti della zona. Ma Stefano a 22 anni era salito fino alla Serie A, con l’Ancona di Vincenzo Guerini, stagione calcistica 1991-’92.«Se chiudo gli occhi, ci sono tre emozioni forti che hanno dato un senso a questi miei 42 anni, l’incontro con Simona, la nascita di nostra figlia Sara dieci anni fa e quel pomeriggio allo stadio Dall’Ara di Bologna, quando con l’Ancona conquistammo quella storica promozione. C’erano12mila tifosi anconetani, una colonna di autobus imbandierati che ci scortarono per tutto il viaggio di ritorno. Bei tempi quelli lì…», sospira nostalgico Stefano. Riesce ancora a esprimersi bene, nonostante il Morbo spesso attacchi la favella. «Io che ho sempre corso a cento all’ora, d’un tratto mi sono trovato a rallentare quando parlavo e il passo si è fatto incerto. Eppure la mia, come mi ha spiegato il dottor Virgilio Bonito che mi ha in cura all’Ospedale Riuniti di Bergamo, è una forma di Sla un po’ più leggera rispetto a quella di Borgonovo. Ma è comunque Sla purtroppo…».La sua sfida quotidiana al Morbo, è cominciata sei anni fa quando ancora giocava in Eccellenza, nell’Adro, e stava per coronare un sogno: «Mi avevano chiamato al Sarnico, per allenare i bambini. La mia grande passione è sempre stata quella di insegnare calcio ai più piccoli. Ora me l’hanno riproposto, ma da una carrozzina come posso spiegare a un bambino che facendo lo slalom tra i “cinesini” impara a fare il dribbling?». È l’unico momento di tristezza negli occhi di un ragazzo che ha ritrovato lo spirito dei giorni migliori, dopo anni bui passati a nascondersi. «Quando al Besta mi diagnosticarono la Sla, la prima reazione è stata chiudermi in me stesso. Restavo sveglio tutta la notte a rivedermi mentalmente il film della mia vita. Ero ossessionato da tante domande tipo: che cosa avevo fatto o che cosa mi potevano aver fatto per ammalarmi di questo Morbo che dicevano fosse raro. Poi ho scoperto che in Lombardia ne sono affetti 500 persone e in Italia ci sono oltre 5mila malati di Sla».Stefano però rientra nella categoria anomala dei calciatori colpiti dal “Morbo del pallone”. «Un giorno infatti dalla Procura di Torino si sono presentati tre collaboratori del giudice Guariniello, hanno aperto i loro computer e per un’intera giornata mi hanno messo sotto “torchio”. Mi chiesero delle squadre in cui avevo militato, dei dottori che lavoravano in quelle società e che tipo di sostanze avevo assunto. Risposi a tutto, ma l’unica cosa che sapevo allora è che provavo tanta paura, mista a vergogna, anche solo ad uscire di casa e farmi vedere in giro che camminavo tutto storto. Non volevo ammettere che ero malato e per giunta un calciatore malato di Sla». Appoggia le mani sul tavolo del salotto e con uno slancio grintoso, degno del suo idolo Gattuso, «oltre al Milan tifo anche Fiorentina», aiutandosi con il carrello arriva in cucina. «Volete che vi prepari un caffè?». Il caffè più dolce mai bevuto, prima di tuffarci nell’amarcord dell’ex promessa del Prato.«L’estate dei miei 16 anni il mister Piero Lenzi, un vero padre, mi disse: “Stefano preferisci andare alla Primavera della Fiorentina o cominciare a guadagnare due soldini con la prima squadra del Prato?” In casa di soldi ne giravano pochi, mia madre Rita che ancora oggi che è in pensione fa la cuoca in un seminario a Pistoia, da sola doveva mantenere me e mia sorella Stefania che studiava e poi si è laureata in Biologia. Io ero il figlio più grande, non c’ho pensato un attimo e gli dissi: Mister resto con lei. Ho debuttato in C1 a 17 anni, mi davano 400mila lire al mese, mi sentivo il ragazzo più fortunato del mondo». La fortuna bacia il talento che da Prato passa alla Carrarese con il “filosofo” Orrico. «Quell’anno segnai un gol alla Pistoiese di Marcello Lippi, che ancora se lo ricorda. L’ho rivisto dopo tanti anni a Coverciano per un convegno sulla Sla e mi fa: “Turchi, per colpa tua quell’anno mi stavano per esonerare”».Tanti i ricordi di questo piccolo eroe esemplare del pallone che ha costruito la sua dignitosa carriera sui campi della Serie C. Dalla Vis Pesaro, al Forlì. E infine al Chieti, dove divenne il capitano, l’uomo che più di tutti nella squadra, porta sulle sue spalle il peso delle responsabilità. «Ho pensato spesso se questa malattia sia dipesa anche dallo stress. Io ero uno molto apprensivo, poi in campo mi sfogavo, davo tanto, forse troppo. Non credo che c’entri il doping, altrimenti nel ciclismo ci dovrebbe essere un’epidemia, ma tra i ciclisti non risulta neppure un caso di Sla. Non escludo però che come tanti miei colleghi del calcio posso aver abusato dei farmaci, specie quando per recuperare in fretta da un infortunio mi davano Voltaren e Muscolin. Di traumi ne ho avuti un’infinità, ho subìto tre operazioni alle ginocchia. Se dipendesse da questo avrei risolto e invece tutti noi malati brancoliamo nel buio». Una vita difficile e Stefano ha smesso di fare programmi a lunga scadenza.«Vivo alla giornata. Per adesso anche economicamente ce la caviamo. C’è lo stipendio di mia moglie che è assessore al Comune di Grumello e io ogni mese prendo i mille euro di pensione da calciatore più l’accompagnamento. Riusciamo ad andare avanti, ma quello che mi preoccupa è il domani. Molti amici conosciuti all’Associazione Ibis si sono aggravati e hanno bisogno dell’assistenza 24 ore su 24 e allora le spese aumentano. Questa è una malattia costosa... Negli Stati Uniti le case farmaceutiche investono tanto sulla ricerca, qui in Italia invece so che ci sono 30-40 sperimentazioni, ma i fondi per farle partire non si trovano mai. Così tocca ai malati darsi da fare per reperire le risorse necessarie all’Aisla (Associazione italiana malati di Sla). Noi calciatori continuiamo a organizzare partite del cuore e io mi faccio regalare le maglie dalle squadre da mettere all’asta. Con quella di Milito l’anno scorso abbiamo tirato su 800 euro che sono serviti ad acquistare una pedana per far salire e scendere da un pullmino le carrozzine». Si illumina il viso di Stefano, come questa bella giornata di maggio. E il sole splende dentro di lui, quando si aggrappa alle stelle ferme del suo piccolo cosmo domestico. «Mia figlia Sara domenica fa la Comunione... Della Sla ha capito tutto. Sa quando deve intervenire se ho problemi nel camminare. E quando con l’auto con il contrassegno per i disabili non trovo posto al parcheggio, lei scende a parlare con i vigili. Simona e i miei suoceri mi danno tanta forza. In questi anni senza l’appoggio della mia famiglia, l’affetto dei tanti compagni di squadra e soprattutto la fede in Dio che mi sostiene, non avrei resistito ai tanti dolori che mi procura ogni giorno la malattia».Una malattia che nel calcio continua a colpire. «Dal professor Chiò tempo fa ho saputo che ci sono altri calciatori nelle mie condizioni, ma non hanno ancora il coraggio di esporsi pubblicamente. Li capisco. Eppure oggi posso rassicurarli che venire allo scoperto e parlarne fa stare un po’ meglio. Più voci siamo e più possiamo essere tutelati. E magari un giorno, come ce l’ho fatta ad andare in Serie A, potrò dire: sono riuscito a sconfiggere la Sla».
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