martedì 19 luglio 2016
L'ALTARE è il cuore della chiesa
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Il cardine di una chiesa cattolica è l’altare. Sintesi di tutti i significati e motivo stesso di esistenza. Alpha e Omega cronologico, origine di sostanza e struttura. Altare è la genesi stessa di quella carne che incarna l’architettura. Fatto sostanzialmente ignorato. L’altare per una chiesa cattolica è il cuore pulsante. Tutta la sua realizzazione dovrebbe espandersi da quel cuore. Invece è trattato come la suppellettile più o meno estrosa di un salotto borghese, noiosa appendice necessaria a soddisfare gli obblighi contrattuali o lo sfogo marginale del creativo di turno. Altare e simboli sono essenziali in una chiesa, e non per una mera ragione compositiva o un equilibrio di volumi. Lo sono per la ragione stessa di essere chiesa. Questo sembra altrettanto scontato almeno quanto è evidente la insignificanza e tristezza della maggior parte dei presbitèri che vengono realizzati. Annichiliti da strutture che dovrebbero essere completamento, non finalità. In una totale indifferenza al significato.

 

Allora a che serve fare chiese? Realizzare omaggi a un assemblaggio di maniera del contemporaneo, non fecondato dal significato? Ripetizione, copia, accademia, estrosità fine a se stessa, testimoniano nella pratica che una cultura non è più in grado di rigenerare, reinventare, rendere attuale e presente la vitalità del suo messaggio. Una chiesa come ogni opera, ogni costruzione, ogni luogo, agisce per osmosi, al di la delle parole. E se è finta, omaggio all’assenza, esercizio di stile, trasferisce immediatamente queste percezioni al suo contenuto. Nei progetti che ho affrontato tutto questo è stato anche provocatoriamente entusiasmante. 

 

 Venendo dall’arte contemporanea senza essere mai stato a contatto con una realtà che invece molti praticano come mestiere, mi sono chiesto se era possibile trasferire l’energia diretta di un’opera di poesia al pensare una chiesa. Pensare la forma come il meraviglioso accidente che permette di incontrare la intuizione nella sua stessa metodologia. Immaginare un’origine, il seme di ciò che ho trovato già fatto. Pensare quale fulcro potesse essere il punto di espansione di tutta la chiesa già costruita. Altare e simboli, geometrie pavimentali, vetrate e portali, connessi nell’architettura in una unità che è essenziale. Una chiesa non è un museo, non è un luogo di raccolta incidentale di oggetti delle mode o del gusto, o coordinati al tipo di arredamento che hanno i frequentatori e magari finanziatori di quella chiesa. Non è questo che si intende con la parola identità. Una chiesa come ogni opera artistica autentica dovrebbe essere un progetto di gioia, un fiume impetuoso che trova i suoi argini che ne aumentano la potenza.

 

Come si può pensare che squadre di professionisti assemblati in forma amministrativa, spesso solo per vincere un concorso, e che magari leggono come in un “bugiardino” farmaceutico le prescrizioni contrattuali, abbiano la tensione giusta per affrontare un percorso di questo tipo? La metodologia non può essere primariamente normativa. Deve essere primariamente di amore comune. La visione non è un capitolato edilizio. I committenti dovrebbero per primi esserne coscienti. La visione non si accontenta della mediocrità. Deve in- contrare la genialità, la qualità. Ma la genialità che si confronta con un luogo fortemente connotato, deve avere in sé un germe di quel percorso, di quella origine. Perché la genialità, se ha qualità, non viene a patti. Si esprime. E se non ha in sé una qualche appartenenza a quella identità, più è geniale e più esprimerà altro. Arrivando anche a negare il senso stesso di quel luogo.

 

È un dato di fatto fisico, corporeo. Molte chiese sembrano in effetti asettici apparati agnostici e polifunzionali, negazione della corporeità non perché utilizzano una idea vagamente e volgarmente definita astrazione, ma perché sono volutamente negazione di vitalità, confezione pastorizzata di una non ben definita propensione funzionalista e sociologica. Non coinvolgono, permettendo a chi le frequenta quella distratta indifferenza che si vende per superiorità culturale. Tutto a favore del non disturbare. Devastante per il senso corporeo della fede senza cui il cattolicesimo non ha senso. Ma devastante anche per poter ripensare un rinnovato umanesimo in senso puramente laico. 

 

 Ma una chiesa cattolica dovrebbe essere corpo. Il corpo anticipa la mente nella conoscenza, in una meravigliosa pedagogia che prepara all’incontro. Il corpo è veicolo, ma molto di più: è l’eredità in anticipo del percorso a venire. Corpo non è necessariamente figura e neanche la sua negazione. Corpo è vibrazione vitale. Meravigliosa interstessi ferenza che permette di non essere una linea piatta. L’idea di incorporeità è utopia di inesistenza. Il corpo è imprendibile, sempre in processo, e non è semplice trasferirne l’essenza, fissarla in un oggetto. Non credo vi sia una formula stilistica. Ma ovunque si percepisca freddezza, eccesso di rifinitura, figurinismo da vetrina, la corporeità non passa. E non aiutano le perline colorate degli effetti tecnologici, già cosi obsoleti, con possibilità infinite di creare oleografie caleidoscopiche e copie perfette. La malattia del “contemporaneismo” genera gli danni dell’artigianato seriale, endemico come la povertà di ispirazione genuina. 

 

 È fondamentale rigenerare il significato dei termini. Su alcune chiese da concorso ho sentito parlare di equilibrio tra emotività e rigore. Per certi versi è anche corretto. L’errore sostanziale è che quell’accezione di equilibrio e rigore si avvicina molto più a una stasi da rigor mortis. La vita è flusso, sbilanciamento, costante ridefinizione di esondamenti sempre imprevedibili e sorprendenti. La vita non è il bianco asettico e “minimal chic” di un sudario geometrico, è il colore, la forza e la incontenibilità dei fluidi e dello scorrere a volte impetuoso che ridefinisce le forme e le modella costantemente. Nella chiesa di Olmo, dove ho realizzato il mio intervento, avevo ben presente che il sangue e l’acqua, motivi ispiratori del progetto, non escono controllati in blister monodose ma come un fiotto incontenibile: che giungano dalla esplosione della nascita di un bambino e dalla ferita di un costato. Quel fiotto incontenibile è la garanzia della nostra vita, il dono che abbiamo in eredità, è la forza inarrestabile che comunque agisce. La rigidità formale e accademica è segno di un profonda avversione verso quel provvidenziale sconvolgimento vitale che l’Incontro continua a generare.

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