martedì 4 settembre 2018
Levi, Améry, Bettelheim ma anche Anna Frank: un saggio di Mariani esamina le tensioni tra testimonianza e senso di colpa
Il campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau, in Polonia (Ansa)

Il campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau, in Polonia (Ansa)

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Gli intellettuali se la sono cavata meglio ad Auschwitz? È una delle sensazioni che a prima vista possono cogliere il lettore che affronta l’opera di Primo Levi. Leggendo Il sistema periodico, che egli non considera né un’autobiografia né un romanzo, quanto «una microstoria, la storia di un mestiere e delle sue sconfitte, vittorie e miserie», l’autore parla del laboratorio del chimico come una scuola di sopravvivenza. Ed è esattamente quanto gli è accaduto nel lager, dove l’essere un chimico gli ha consentito di venire esonerato dai compiti ingrati e massacranti della maggior parte dei detenuti. Polemizzando con Jean Améry, per il quale essere intellettuali nel campo di concentramento andava considerato uno svantaggio, Levi, che inglobava nella categoria non solo gli umanisti ma anche gli scienziati, riteneva che il fatto di svolgere un’attività all’interno del laboratorio consentisse una chance di sopportazione maggiore dell’orrore.

Quella degli intellettuali nei lager nazisti è una delle tante sollecitazioni che emergono dal libro di Maria Anna Mariani, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Chicago, da poco uscito da Carocci col titolo Primo Levi e Anna Frank. Tra testimonianza e letteratura (pagine 164, euro 17,00).

Si spazia dallo psicoanalista Bruno Bettelheim, che una volta libero rimproverò ai sopravvissuti di essere stati troppo inermi, incapaci di ribellarsi alle angherie loro inflitte, allo scrittore Terrence Des Pres, il quale piuttosto vedeva l’unico atto di rivolta possibile nel lager nel restare attaccati alla vita: entrambi – ahinoi! – si sono suicidati, così come Améry e Primo Levi. Questi ultimi forse incapaci di sopportare il fatto di essere sopravvissuti, il pesante macigno di essere ancora vivi dopo la catastrofe.

Ed è proprio sulla linea fra sopravvivenza e testimonianza che si situa il saggio di Mariani, che inizia la sua analisi partendo dal titolo con cui inizialmente fu tradotto in Usa, nel 1961, il volume più famoso dello scrittore, Se questo è un uomo, vale a dire Survival in Auschwitz. «Come può un superstite sopportare – si chiede l’autrice – la sensazione di essere un usurpatore, di aver strappato a un altro il diritto a essere? Come si può esistere così, infestati da questo senso di colpa alienante?».

L’unica possibilità è la testimonianza. Ed è il compito che Levi si assume, senza peraltro esserne mai soddisfatto. Pesa sulla coscienza dello scrittore il non essersi ribellato: per lui la nuda vita non aveva niente di eroico. Così, guarda con ammirazione un membro del Sonderkommando di Birkenau che progetta un ammutinamento del crematorio e che viene impiccato davanti a tutti i detenuti. Poco prima di morire egli leva un grido: “Compagni, io sono l’ultimo!”. Ma la reazione di tutti è solo quella del silenzio.

«Vorrei poter raccontare – annota amaramente lo scrittore torinese in Se questo è un uomo – che fra di noi, gregge abietto, una voce si fosse levata, un mormorio, un segno di assenso. Ma nulla è avvenuto. Siamo rimasti in piedi, curvi e grigi, a capo chino». Il grigio per Levi è il colore del lager.

Quando esce il film Il portiere di notte di Liliana Cavani, in cui un ex detenuta reincontra il kapò che l’aveva sottomessa e rimane invischiata in un rapporto complice con lui, lo scrittore però si arrabbia: per lui i ruoli non vanno confusi. Al contempo, egli rifiuta di vedere nei criminali nazisti l’incarnazione del male assoluto: «Questa ferocia totale non è esistita. C’era un’ampia zona grigia. Anzi era quasi integrale. Allora eravamo tutti grigi».

Ma il suo vero cruccio, una spina nel fianco che non l’abbandonerà mai, è il fatto stesso di essere sopravvissuto. Scrive nei I sommersi e i salvati: «I salvati del lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti: i migliori sono morti tutti». Insomma, i veri testimoni sono i sommersi. L’unica cosa che può fare il salvato è dare voce ai sommersi. Con un senso di vergogna sempre presente e a volte opprimente; e «l’ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua». Come acutamente ha scritto Tzvetan Todorov, non c’è più barriera fra il male e se stessi.

Se il suo primo libro, Se questo è un uomo, testimonia di un male particolare per quanto assoluto, l’ultimo, I sommersi e i salvati, constata che il male si è installato ovunque. E davanti alle altre tragedie che colpiscono l’umanità, un timore terribile pare impadronirsi di lui, che Auschwitz non sia servito a niente. Ad Auschwitz, poco dopo la liberazione, Primo Levi incrociò per qualche istante Otto Frank, il padre di Anna, mentre invano cercava le sue figlie scomparse.

Il libro di Mariani vuole dare forma a un incontro, quello tra Primo Levi e Anna Frank, che non è mai avvenuto: l’incontro fra una sommersa e un salvato. Le loro opere in effetti si completano a vicenda e sono «l’unica testimonianza possibile, quella che reca traccia di una sparizione e al tempo stesso le resiste, consegnandola alla memoria». Così Mariani, sulla scia di altri critici e pensatori, nega che il Diario non abbia vero valore di testimonianza della Shoah dato che si ferma prima della deportazione. E al tempo stesso, ricostruendo accuratamente le varie fasi della sua elaborazione, nega recisamente che non debba essere considerato veritiero o che si possa adombrare addirittura l’ipotesi di una frode: l’intervento del padre sul manoscritto (anzi sui due manoscritti realizzati da Anna, di cui il secondo incompiuto) è stato solo quello di un editor.

E per questo motivo non condivide la scelta recente della Fondazione di considerare l’opera firmata da due coautori, padre e figlia, ipotizzando che essa sia stata presa per allungare la scadenza del diritto d’autore a partire da 70 anni dopo la morte di Otto. Cioè dal 1980 e non più dal 1945. Come ha scritto ancora Primo Levi: «Una singola Anna Frank ci commuove più che gli innumerevoli altri che hanno sofferto proprio come lei, ma le cui facce sono rimaste nell’ombra. Forse è meglio così: se fossimo capaci di contemplare le sofferenze di tutte quelle persone, non saremmo capaci di vivere».

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