domenica 16 aprile 2023
Nell’opera del maestro della videoarte, in mostra a Milano, il tempo pressoché immobile è una terapia (o una fuga) da quello scorrere che eppure è l'essenza dell'esistere
Bill Viola, "Emergence", 2002, installazione video. Particolare

Bill Viola, "Emergence", 2002, installazione video. Particolare - Kira Perov / © Bill Viola Studio

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A Milano Palazzo Reale propone fine al 25 giugno una ampia mostra di Bill Viola, quindici opere che coprono trent’anni di lavoro del discepolo dei classici e caposcuola della videoarte.

Potente, apocalittico, pone alla base del suo lavoro il dubbio e crea opere la cui dichiarazione estetica di straordinaria ricercatezza tecnica non ammette repliche, ispirata alla grande pittura che riscrive in slow motion senza risultare in alcun modo citazionista. I suoi stratagemmi scenici sono innumerevoli, tutti dosati con la maestria consumata di chi è padrone del mezzo e sa cosa vuol dire e dove vuole portare l’attenzione.

Sul suo lavoro è stato scritto praticamente tutto, il consenso è plebiscitario, perfezione e ortodossia contribuiscono in modo rilevante. Non sono un critico né un giornalista e questa non è una recensione, né vorrei lo fosse. È una riflessione da artista, libera da osservanze accademiche e filologiche, che riguarda alcuni aspetti estetici dell’artista statunitense, le loro implicazioni e i loro limiti, dal punto di vista della mia personale esperienza di autore e osservatore.

Ricordo la prima volta che ho visto le sue opere, la lentezza sfiorava il parossismo e sfidava la pazienza: sono rimasto profondamente colpito anche se della “bolla mondo” dell’arte, allora, non sapevo nulla o quasi. Era il dittico Dolorosa, del 2000. Una lacrima compariva su un volto sofferente all’improvviso, come affiorata dal nulla. Il succedersi delle espressioni avveniva su un tavolo da dissezione temporale dove l’insieme del gesto, per me impossibile da cogliere, lasciava il posto alla impressionante pornografia dei particolari. Sono sprofondato nel contrarsi progressivo di ogni singola fibra muscolare, nella pelle che distende le sue geografie trascinate da uno smottamento impercettibile cellula per cellula. Biologie intente in epifanie minime, svincolate dal succedersi degli eventi, minuscole monoliti sfumati nei meandri tra un fotogramma e l’altro. Tutto sembrava sul punto di tornare indietro. Bill Viola era riuscito in qualche modo a ribaltare il processo vitale svolgendo la trama di stasi successive fino a privarle di una necessità consequenziale. Non serviva il momento dopo a spiegare quello prima, la sua contemplazione era sufficiente.

A mio modo di vedere quel time warp innaturale e slegato dalla narrativa è ancora oggi la cifra rivoluzionaria di Bill Viola, rivelazione di un mondo negato alla percezione che fa sintesi, coglie l’essenziale, impermeabile all’utopia di una perfezione che trattiene a sé la vita dal decadimento. Opulenza ingannevole, magnificente, autocrazia rinascimentale sceneggiata, affascinante e distante dall’uomo. L’evento percepito, la lacrima finalmente apparsa, l’espressione cambiata, non capisci veramente come, succedevano come una liberazione, la vita che riappare, per poi essere nuovamente riassorbita nel loop intorpidito di un anestesista prodigioso.

Questo percorso laborioso, liquefatto nella colla delle ottiche superveloci, era la celebrazione di una idea come non l’avevo mai vista, illusione di permanenza, transizione fatale meravigliosamente decorata. Antefatto e storia, epilogo e morale, tutti unificati nel processo unico di un farsi impercettibile che contamina lo sguardo con la ostinazione prolungata di una iniezione di deposito. La formulazione degli ingredienti scenici e di ripresa somministrata da Bill Viola era una terapia di fuga dall’attimo fuggente che sostiene l’impalcatura del nostro esistere. Tutto talmente forte da rendere necessario, almeno a me, immaginare un controcanto. Quella rappresentazione imbrigliava immagine statica e movimento in una chimera di elementi irriducibili che incredibilmente sembravano fondersi istante dopo istante. Questo è il Bill Viola che ho assorbito, che ha influenzato il mio lavoro in seguito, le mutazioni che scivolano sul nocciolo di una presenza mimetizzata tra le lame taglienti del dettaglio, bosco fitto di distrazioni.

Poi c’è il Bill Viola dei racconti dalle forme teatrali indefinibili, inquietanti, oniriche, immersive. La potenza teatrale di queste altre opere è indiscutibile, la chiave attraverso cui parla al grande pubblico e non solo. Emergence, del 2002, è a mio modo di vedere, uno dei video più sofisticati di sempre in termini di composizione, ricerca cromatica, senso di spaesamento che attraverso ripresa e postproduzione danno vita a un mondo di mezzo tra divinità e umanità, come se qualcuno avesse combinato il Parnaso col Walhalla e li avesse spolverati di Rinascimento.

Della ruvidezza scabra che impregna il Cristo in pietà di Masolino rimane poco più che un riferimento letterale. In Emergence lo straripamento dell’acqua che invade il campo colpisce ancor più del corpo dal pallore obitoriale. I suoi significati simbolici sono perfino troppi, l’effetto scenico straborda dall’oggetto architettonico a metà tra un sepolcro e un pozzo forzando in modo decisivo la percezione di chi guarda. A me provoca una diffidenza da artificio sovraesposto come l’enfasi troppo ricercata delle espressioni che dà conto di un sacro da iperuranio, distinto dall’umano, diametralmente opposto alla polvere e la terra vera, lo sporco, il sangue che puzza dopo qualche ora e certamente farebbe storcere un po’ il naso ai figuranti di una pietà da strada, decadimento fastidioso, nostra salvezza.

A differenza di quelle quasi statiche e in qualche modo decontestualizzate, sono opere che sembrano pensate per travolgere lo spettatore con la ritmica degli eventi e una drammaticità squillante, non più sottesa. Nella maggior parte dei casi succede proprio questo, lo spettatore vive i video dei vari Martyrs, The greeting, The deluge, Tristan’s Ascension, The Raft, come esperienze coinvolgenti e sconvolgenti, credibili, in cui si immedesima profondamente grazie a espedienti scenografici estremamente efficaci. Qui il cavallo di troia di Bill Viola è una iperstimolazione con il freno dosata con sapienza unica, che si ritorce però contro il degrado impresentabile, quello che attraversa ogni corpo vero. Tutto è dichiaramente iper-recitato, con grande qualità interpretativa beninteso, quintessenza di rifinitura, addomesticato in un processo gloriosamente estetizzante, cifra insuperabile di queste opere. Tutto fin troppo teso a creare turbamento.

Non credo all’emozione come garanzia di alcunché anche per contesti ben più tragici che una esposizione di arti visive. Il sentimento è una forma devozionale di consenso, transitoria, prevedibile e progettabile ma di per sé non ha a che fare con la poesia intesa come catarsi della forma, non ha alcun aspetto salvifico per chi erroneamente ce lo vede. Ha a che fare con di una scena che fa piangere, più di rado sorridere. Questo contribuisce non poco al successo presso il grande pubblico. Comunque sia vedere una mostra di Bill Viola, se non ci si lascia intrappolare da empatie facili e transitorie, genera frutto. Il massimo cui può aspirare un’opera d’arte.

Una ultima libertà. Se dovessi pensare a cosa rappresenta meglio la mia idea di martirio, tema cui sono particolarmente legato, tra le opere dell’artista americano non penserei ai Martyrs che trovo molto rock punk. Sceglierei ancora la lacrima Dolorosa del principio, il volto cui è negato procedere leggero verso l’esistenza, trattenuto per sempre nel setaccio di una morte silenziosa, ancorché perfetta, che impedisce di dimenticare.

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