martedì 15 ottobre 2019
Sfruttate da cinquecento anni, le storiche miniere boliviane sono ancora attive: vi lavorano dodicimila minatori, tra mille pericoli, nella costante attesa della catastrofe finale
Il popolo del Cerro Rico

Il popolo del Cerro Rico

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Anticipiamo alcuni stralci del nuovo libro di Ander Izagirre La bambina d’argento, in uscita oggi per Piemme (pagine 208, euro 17,50). Si tratta di un reportage dalla miniera d’argento più estesa del mondo, quella di Potosí in Bolivia, tra minori impiegati illegalmente per venti pesos al giorno, malattie, crolli quotidiani, superstizioni e gli appetiti delle grandi potenze. La miniera del Cerro Rico viene sfruttata da secoli; i locali la chiamano anche la «montagna che mangia gli uomini»: il tasso di mortalità fra i minatori è altissimo. Cadute, intossicazioni causate dai gas velenosi, frane interne alla miniera sono fra le cause più frequenti di morte insieme alla silicosi, un male al quale nessun minatore riesce a sfuggire. Fra i minatori, molti sono i bambini, che paradossalmente rivendicano il proprio diritto al lavoro per poter aiutare le famiglie a mangiare. Poi ci sono le donne, che ufficialmente non possono lavorare in miniera, ma che talvolta lo fanno. Sembra di essere in un girone infernale, eppure i minatori sono orgogliosi del proprio lavoro.

Dopo cinquecento anni di attività mineraria, il Cerro Rico è una montagna sbriciolata. I minatori scavano ogni giorno tre o quattromila tonnellate di roccia per estrarne argento, piombo, zinco e stagno. Secondo i calcoli del geologo Osvaldo Arce, la montagna contiene ancora 47.824 tonnellate di argento puro: più di quanto ne sia stato estratto in tutta la sua storia. Il problema è che l’argento non è più concentrato in ricchi filoni, ma disperso in vene minuscole, in concentrazioni bassissime. L’unico modo per ottenere tutto quel metallo sarebbe quello di scavare, triturare e setacciare l’intera montagna. Ed è quello che pare stiano facendo: ogni giorno ottomila, diecimila, dodicimila minatori vanno sottoterra e continuano a perforare [...]. Ogni esplosione di dinamite apre un altro buco nel Cerro. Uno studio del ministero delle Miniere ha identificato 138 zone smottate – alcune recenti, altre vecchie di secoli – e ha anche segnalato molti punti nei labirinti di gallerie in cui il rischio di crollo è particolarmente alto. Ci sono caverne enormi, abbandonate dai minatori, che stanno cedendo a causa della corrosione provocata dalle acque acide. Nel 2011, dopo un periodo di forti piogge, la cima appuntita della montagna iniziò a disintegrarsi e nel giro di pochi giorni si aprì un cratere largo 40 metri e profondo altrettanti.

Il Cerro Rico è, tra le altre cose, un simbolo. È la grande piramide che si innalza sopra la città di Potosí, la silhouette che compare sullo stemma della Bolivia e sui francobolli, sui poster e sulle cartoline, nei paesaggi dei quadri barocchi, un enorme monumento triangolare, l’icona delle ricchezze terrene e del potere divino. Però sta crollando. Sui quotidiani boliviani, gli editorialisti esprimono il timore che il simbolo della nazione possa essere mutilato. O che possa ridursi in polvere. Le metafore si sprecano. Nel frattempo, indifferenti al futuro dello stemma nazionale, diecimila minatori entrano nella montagna tutti i giorni. Gli abitanti di Potosí temono il giorno del collasso finale, la frana apocalittica che metterà la parola fine alla storia del Cerro Rico. Al suo interno giacciono le ossa, o la polvere delle ossa, di decine di migliaia di minatori, dal primo schiavo indio del tempo dei coloni spagnoli a Luis Characayo, il trivellatore comparso sul giornale di ieri dopo essere stato travolto da un crollo. Causa della morte: trauma cranico encefalico e asfissia. Il Cerro Rico di Potosí lo chiamano la montaña que devora hombres, la montagna che mangia gli uomini.

Alicia Quispe ha 14 anni. Porta una logora tuta da lavoro gialla – con le maniche troppo lunghe di diversi centimetri – un paio di enormi stivali di gomma e un casco da minatore, anzi da minatrice. I capelli neri sono raccolti in una coda di cavallo e gli occhi a mandorla guizzano continuamente qua e là, come se stesse cercando di vedere cosa succede alle mie spalle [...]. Alicia Quispe non è il suo vero nome. Preferisco tenerlo segreto perché non venga mandata via dal suo lavoro clandestino. Il lavoro che un direttore delle cooperative di minatori mi dirà che non esiste. Non esiste ma, be’, se esistesse non sarebbe poi questo gran problema, perché i ragazzini, che vuoi, qui ci vivono, all’ingresso della miniera, aiutano la loro famiglia, come facevamo noi, dicono alla cooperativa, come abbiamo sempre fatto, perché cos’altro farebbero altrimenti, i bambini del Cerro Rico? Alicia fa un lavoro che non esiste, un lavoro per cui la pagavano venti pesos al giorno – o meglio, alla notte –, poco più di due dollari. E per cui adesso non la pagano affatto. Adesso lavora gratis per ripagare un debito che i minatori della cooperativa attribuiscono a sua madre, una trappola per tenerle in schiavitù. Ieri ho parlato con Alicia in un’aula ai piedi della montagna dove il Cepromin organizza corsi speciali per i bambini delle miniere – e per altri bambini lavoratori: operai edili, domestici, lustrascarpe – per evitare che rimangano indietro a scuola. E dove mangiano uova, carne e verdure fresche… tutte cose che a casa loro non mangiano mai. Dove possono fare una doccia calda e giocare, leggere, rilassarsi. Dove nessuno li picchia. Gli insegnanti mi hanno parlato di lei, hanno detto che dovevo conoscerla. La prima volta che l’ho vista era seduta a un lungo tavolo insieme a quattro o cinque ragazze della sua età, tutte intente a fare i compiti; lei sfogliava un libro illustrato di Cenerentola. Sono andato a salutarle, ho parlato con loro, ho fatto qualche domanda impacciata e Alicia è stata l’unica a farmi a sua volta una domanda. Ho chiacchierato un po’ con lei mentre le sue amiche si rimettevano a fare i compiti e mi ha invitato ad andare a trovarla a casa sua, se ne avevo voglia [...].

Alicia saluta i due minatori e percorre la breve distanza che la separa dalla baracca dove vive con sua madre Rosa, quarantadue anni, e la sorella Evelyn, quattro. È un cubicolo di mattoni grezzi di adobe, quattro pareti senza finestre ricoperte da un tetto di lamiera. Lo hanno costruito i minatori sulla canchamina, a 4.400 metri di altitudine, dove è sferzato dal vento, e hanno messo delle pietre sul tetto perché non voli via. Quassù il vento – che alza nuvole di polvere tossica e raffiche di ghiaia che tamburellano come grandine – ti ghermisce come se avesse gli artigli. I minatori hanno permesso ad Alicia e alla sua famiglia di vivere qui. È l’unico posto dove possono vivere: un posto in cui vivere è quasi impossibile. Abitano in una delle case più alte del pianeta, nell’ultimo e più rarefatto strato dell’atmosfera concesso all’essere umano, a oltre 4.400 metri di altitudine, dove sono praticamente sole. Alicia, Rosa ed Evelyn hanno sotto di loro il 99,9 per cento dell’umanità. Poco più in alto, non vi è alcuna possibilità di abitare in pianta stabile. Appena sopra la loro testa l’atmosfera si fa rarefatta, la densità dell’aria è la metà di quella che c’è a livello del mare, e gli alveoli polmonari faticano a far arrivare ossigeno sufficiente nel sangue.

Le popolazioni che vivono a queste altitudini si sono adattate nel corso dei millenni: hanno polmoni più grandi, in grado di assorbire una quantità maggiore di aria a ogni inspirazione, e più globuli rossi per trasportare l’ossigeno nel corpo. Ma c’è un limite alla concentrazione di globuli rossi, perché altrimenti il sangue diventa troppo denso e forma coaguli che provocano ictus e attacchi di cuore. Nessun essere umano può risiedere in permanenza sopra i 5.500 metri di altitudine. Qui, a 4.400 metri, non tutti reggono. La quasi totalità di quelli arrivati da poco soffrono di mal di testa e vertigini, e vengono presi dal panico quando si rendono conto di quanto batte veloce il cuore. Ci vogliono alcuni giorni per abituarsi: non resta altro che dormire, stare a riposo, bere infusi di foglie di coca e aspettare che i globuli rossi si moltiplichino per poter finalmente fare più di quattro passi senza sentirsi esausti. Ad alcuni va peggio: vomitano, svengono e soffrono di emicrania. O molto peggio: sono vittime di edemi che provocano l’accumulo di fluidi nei polmoni o nel cervello, e muoiono. Ad Alicia è permesso vivere qui, dove la vita è quasi impossibile.

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