sabato 2 febbraio 2019
Un toccante libro dell’anatomopatologa Cattaneo. Coi colleghi del Labanof da anni ricostruisce le storie e dà un nome ai cadaveri dei migranti restituiti dal mare
La tombe di migranti a Lampedusa (foto archivio Ansa)

La tombe di migranti a Lampedusa (foto archivio Ansa)

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Accade che una lettura ci sconvolga, e non soltanto per quel che ha da dirci, per la forza del testo; anche per uno strano riverbero che quel testo proietta sul presente. Come il libro di Cristina Cattaneo Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo, (Cortina, pagine 198, euro 14), letto in queste giornate di profonda pena per le tante imbarcazioni in pericolo, le 170 vittime di qualche giorno fa, le migliaia del passato, le molte altre che è facilissimo temere per i tempi a venire.

Persone disperate e in fuga da orrori e torture, persone che non sono 'il pericolo', come pensa una fetta di italiani, ma che sono piuttosto 'in pericolo'. E basta quella consonante diversa a capovolgere tutto, rendere questo dramma del nostro tempo un peso sulla coscienza di tutti. Cristina Cattaneo di professione è medico legale. Ha fondato insieme a dei colleghi il Labanof (Laboratorio di antropologia e odontologia forense, riconosciuto dalle Nazioni Unite). Da molti anni, buona parte del suo tempo lo impiega «a esaminare cadaveri e resti».

Osservare e archiviare foto di ecchimosi, bave alla bocca (come accade nell’annegamento), squarci di ferite mortali; e denti, capelli, unghie, dettagli necessari per provare a datare sia i decessi, che l’età dei deceduti. Al centro di queste pagine c’è la morte nella sua spietata realtà fisica, improvviso arresto di tutte le funzioni vitali di corpi poi destinati alla decomposizione. Ante mortem e post mortem: entro queste due scansioni si colloca l’enorme numero di migranti annegati e senza nome. Ante mortem è raccogliere gli elementi utili a ricostruire le loro identità, post mortem, tutte le procedure necessarie a poter circoscrivere e piangere - la fine di una vita. Il tempo restante del lavoro, Cattaneo e gli altri membri del Labanof lo impiegano a gestire colloqui con familiari, amici, supposti conoscenti delle vittime, nella ricerca affannosa di dare loro un’identità.

Accudire i cadaveri: spendersi in ogni modo pur di capire chi siano, così da ottenere per loro quel certificato di morte che equivale a giuste esequie, debite tumulazioni, e per chi li amava a elaborazione di un lutto, impossibile se il corpo del morto non lo si è visto né lo si è riconosciuto. Uno 'stillicidio di incidenti' puntella le fasi del lavoro di Cattaneo e la sua équipe.

I 322 morti del naufragio del 3 ottobre 2013; intenso lavoro e nuove tragedie, sino alla più terribile al largo di Lampedusa, il 18 aprile 2015: 1000 morti, e il relitto di un barcone blu che resta come il più funesto dei simboli. Cristina Cattaneo si mette in gioco in prima persona. Racconta quanto il suo lavoro abbia cambiato il suo modo di guardare alla vita, alle tragedie dei superstiti. La sua è un’empatia che si nutre della realtà di effetti personali «che rappresentano gli ultimi gesti, le ultime scelte, e potrebbero essere un giocattolo di tua figlia, un maglione di tuo padre».

Amabili resti. Attaccati ai corpi dei morti (eritrei, somali, siriani, libici, pachistani), nelle loro tasche il medico legale trova pagelle di scuola (è accaduto di nuovo di recente), banconote, appunti pieni di speranza, fitti di indicazioni pratiche per quell’arrivo che non avrà mai luogo. Anche sacchetti riempiti di terra, la terra che nella speranza di salvarsi si è lasciata. Talismani la cui potenza evocativa drammatica sa azzerare ogni distanza culturale. «È giusto essere qui», Cattaneo si sente dire da un collega mentre esausti, in un ridotto di commissariato si concedono una pausa dopo ore e ore di strazianti colloqui con i superstiti. Giusto, certo. E molto di più. Umano. «Sentivamo di avere in qualche modo ridato voce a chi l’aveva perduta, o a chi, forse, non l’aveva mai avuta».

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