mercoledì 27 settembre 2023
Lo sviluppo economico nasce da matrici sociali antiche, oggi segnate dal pluralismo. Per questo occorre un dialogo nel nome di un progetto neo-umanista opposto all’inquietante transumanesimo egemone
Stefano Zamagni

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Stefano Zamagni, docente di Economia politica all’Università di Bologna, parteciperà al convegno inaugurale di LuBeC - Lucca Beni Culturali, rassegna internazionale dedicata a cultura e innovazione che si terrà domani e venerdì al Real Collegio di Lucca; anticipiamo qui i punti salienti della sua relazione. L’edizione 2023, la diciannovesima, è intitolata “Effetto cultura”: invita a riflettere sul modo in cui la cultura può aiutare la crescita del Paese in ogni ambito, contribuendo allo sviluppo sostenibile e rispondendo a bisogni economici, sociali ed ecologici. Quest’anno il Paese ospite dell’evento, diretto da Francesca Velani e promosso da Promo PA Fondazione, sarà l’Olanda. Le tematiche trattate spazieranno dal benessere delle persone a quello delle comunità, dalla crescita civica a quella professionale, dall’innovazione dell’imprenditoria alla sostenibilità dell’economia creativa e artistica. Tra gli ospiti saranno presenti Danny van Zuijlen, esperto di teatro immersivo, Davide Rampello di The Human Safety Net - Venezia, Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, Michele Lanzinger, direttore Muse Trento e presidente dell’International Council of Museums (Icom), e Antonio Lampis del dipartimento Cultura italiana, ambiente ed energia della Provincia autonoma di Bolzano. Da diciannove edizioni, al centro di LuBeC c’è il dialogo fra pubblico e privato: si parlerà anche di policy, modelli di governance, processi e servizi, dal punto di vista di organizzazioni culturali che, evolvendosi continuamente, intendono apportare capacità creativa, competenze e resilienza per raggiungere importanti obiettivi collettivi.

È oggi ampiamente riconosciuto che lo sviluppo economico – da non confondersi con la mera crescita economica – e soprattutto il progresso morale e civile della società, più che il risultato dell’adozione di sofisticati schemi di incentivo o della disponibilità di risorse naturali, consegue piuttosto dalle caratteristiche della matrice culturale che la società ha saputo costruire nel corso del tempo. La ragione è semplice: non sono gli incentivi (o le risorse) di per sé a contare, ma il modo in cui le persone li percepiscono e quindi reagiscono nel proprio animo. E i modi di reazione dipendono proprio dalle specificità della cultura di riferimento, la quale è a sua volta plasmata dalle norme sociali, dalle articolazioni della società civile, dalla religione intesa come insieme di credenze organizzate. L’economia di mercato, in particolare, ha bisogno per la sua continua riproduzione di una varietà di input culturali, che però non è essa stessa in grado di produrre da sola, come una “cattiva” teorizzazione economica continua purtroppo a suggerire. Né è accoglibile la tesi di chi vede la cultura come la nostra seconda natura.

È vero piuttosto che la cultura è il modo stesso in cui la natura umana si realizza, proprio perché siamo “animali culturali”. (Sul rapporto tra natura e cultura ha dettato parole di notevole spessore papa Francesco durante l’incontro con il mondo della cultura all’Università Cattolica di Budapest il 30 aprile 2023). Un chiarimento si rende opportuno. Il capitale culturale di cui parliamo non va confuso né con il capitale umano (la conoscenza incorporata nella persona), né con l’insieme dei beni culturali (musei, opere d’arte, biblioteche e altro ancora).

Eppure, per paradossale che ciò possa apparire, la confusione continua ad essere alimentata, perfino da non pochi “addetti ai lavori”. L’esito è che quella culturale viene considerata come una speciale attività di consumo anziché di produzione e dunque come attività incapace di generare livelli sempre più avanzati di pubblica felicità. E così il lavoro culturale servirebbe solo ad accrescere l’utilità di chi ne fruisce e ad aumentare il Pil. (È questa la concezione funzionalistica della cultura). Un solo esempio rivelatore di tale confusione. Il Pnrr colloca i settori culturali e turistico nella componente 3 della Missione 1, dove la cultura è identificata con il cosiddetto patrimonio culturale (il cultural heritage).

A dire il vero, la concezione “patrimoniale” della cultura ha radici piuttosto antiche. Scrive al riguardo Brunetto Latini, il maestro di Dante: « La cultura è qualcosa che dobbiamo accumulare per noi perché in tempi tristi, durante l’esilio o in prigione, nessuno ce la potrà togliere e potremo così goderne» ( Il Tesoretto). Per fortuna che il Poeta ha seguito tutt’altra strada, sconfessando così il maestro! Quel che va ricordato è che la cultura, avendo a che fare con la dimensione morale e relazionale della condotta umana, mira alla educazione della mente e alla cura dell’anima e non tanto alla acquisizione di abilità professionali o tecniche: a queste ultime provvedono l’istruzione e la formazione.

Ecco perché è oggi importante insistere sulla democrazia culturale intesa – ha scritto Francesco Viola – come una democrazia in cui i diritti culturali occupano un posto di rilievo e dunque non solamente vanno tutelati, ma pure espansi. Infatti, le specificità dei diritti culturali, da non confondere con i diritti politici, sociali ed economici, riposa sulla circostanza che la cultura non è solo un bene da fruire, ma una componente essenziale alla dimensione ontologica dell’uomo. È per questo che i diritti culturali vanno considerati in tutta la loro ampiezza e non ristretti alla protezione di particolari identità culturali. Una democrazia che fosse attenta alle esigenze dei diversi gruppi culturali che la abitano, ma restasse indifferente ad assicurare il diritto di tutti all’accesso libero alla vita culturale non sarebbe una autentica democrazia culturale.

Si pone l’interrogativo: come realizzare la necessaria comunanza etica nella società pluralista come è oggi quella europea, contraddistinta dalla presenza, al proprio interno, da una pluralità di matrici culturali? È questo un tema formidabile che non ha ancora trovato una soluzione soddisfacente in Europa. (Il che spiega non poco la persistenza delle difficoltà, su vari fronti, che quotidianamente registriamo). Eppure, una soluzione non può non esserci, anche se non dietro l’angolo. Va però voluta e soprattutto desiderata. Il “Modello del dialogo interculturale” è, ad avviso di chi scrive, una proposta credibile e fattibile a tale riguardo. Certamente ce ne saranno altre.

Ma allora perché non aprire un confronto di alto livello intorno a tale sfida? Sarebbe questo un modo concreto per testimoniare l’adesione a quel progetto neo-umanista di cui sempre più si avverte il bisogno per contrastare l’egemonia, davvero inquietante, del rivale progetto transumanista. La nuova Europa che si vuole realizzare non può prescinderne, se ha da essere veramente nuova. Chiudo richiamando alla memoria un pensiero celebre di Thomas Eliot. «La cultura – si legge ne I cori della rocca –, è come l’albero, che non si può costruire ma solo piantare e attendere, con pazienza, che il tempo lo faccia crescere. Tuttavia, lo si può coltivare, annaffiandolo e concimandolo, per accelerarne o irrobustirne il processo di crescita». È questo, dopo tutto, il fine ultimo cui l’iniziativa di LuBeC 2023 tende, con coraggio e convinzione.

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