sabato 17 aprile 2021
Per Togliatti a puntare sulla propaganda si sarebbe rimasti marginali al governo del Paese, ma già con la fake del “golpe De Lorenzo” (come svela un libro di Segni) il partito prese un'altra strada
Antonio Segni, presidente della Repubblica dal 1962 al 1964

Antonio Segni, presidente della Repubblica dal 1962 al 1964 - Ansa

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Proponiamo alcuni stralci dell’introduzione di Agostino Giovagnoli al volume di Mario Segni Il colpo di Stato del 1964. La madre di tutte le fake news (Rubbettino, pagine 178, euro 13), nel quale il figlio dell’allora presidente della Repubblica, Antonio Segni, ricostruisce, documenti alla mano, le vicende della crisi di governo del 1964 e le successive interpretazioni giornalistiche e storiografiche.

Nel luglio 1964 ci fu in Italia una complicata crisi di governo. Aperta da Aldo Moro e chiusa dallo stesso leader politico – si passò dal primo al secondo governo Moro –, su quella crisi influirono forze economiche, rappresentanti delle istituzioni europee, organi di stampa; fu gestita dagli esponenti dei partiti, in particolare quelli di maggioranza; in essa il presidente della Repubblica svolse un ruolo importante. Fu insomma una classica crisi di governo della Prima Repubblica, quella che Pietro Scoppola ha definito la Repubblica dei partiti. Eppure, il luglio 1964 è ricordato soprattutto per il cosiddetto “golpe De Lorenzo”. [...]

L’ipotesi di “golpe” ha cominciato a diffondersi nel 1967, cioè tre anni dopo e ha una storia diversa, in gran parte indipendente, dalle vicende del luglio 1964. Nella sua diffusione hanno avuto di certo un ruolo importante coloro che in buona fede hanno creduto alla fondatezza di quelle notizie e hanno ritenuto loro dovere denunciare i pericoli che ritenevano la Repubblica avesse effettivamente corso. Ma è lecito chiedersi se ci siano stati anche intenti politici nella diffusione di tale ipotesi. Ci sono elementi che fanno pensare a un input sovietico, ma non è stato possibile accertarne la fondatezza. Tale input è stato infatti confermato dallo stesso protagonista dello “scoop”, Lino Jannuzzi, ma ci sono motivi per ritenere la sua testimonianza inattendibile e le occasioni per verificarla – come una possibile audizione da parte della Commissione Mitrokhin – sono state disattese. Ma bisogna guardare anche al contesto italiano.

Nel 1967 era in corso il tentativo dell’unificazione socialista tra Psi e Psdi voluta da Nenni e Saragat, attesa anche da Moro. Questi, infatti, parlò pubblicamente della possibilità di una profonda trasformazione del sistema politico-istituzionale italiano, con una sua evoluzione in senso bipolare imperniata sulla Dc e su un forte partito socialista unificato. Sarebbe stato un duro colpo per il Pci, ma gli elettori decisero diversamente bocciando di fatto, nelle elezioni del 1968, l’unificazione socialista. Nel 1967, quindi, quanti erano contrari a questa unificazione avevano interesse a boicottarla e certamente le notizie su un presunto “golpe” andavano in questo senso. Non è casuale che a lanciare tali notizie furono ambienti vicini alla sinistra socialista, uscita pesantemente sconfitta dalla crisi del 1964, con l’estromissione di Antonio Giolitti dal governo e di Riccardo Lombardi dalla direzione dell’Avanti!. Anche la diffusione dell’ipotesi “golpe” presenta motivi di interesse storico. Quell’ipotesi si è trasformata presto in certezza ed è divenuta un mito politico che è servito a elaborare una pesante sconfitta. Tutte le sconfitte sono difficili da elaborare ed è sempre molto forte la tentazione di attribuirle al “destino cinico e baro” che in questo caso assunse il volto, tre anni dopo, del generale De Lorenzo. In questa chiave, tale mito ha il sapore autoconsolatorio di una sconfitta negata e di una subalternità rimossa. È una reazione comprensibile, serve a com- pattare il proprio schieramento dopo un duro colpo subito, ma alla lunga è pericolosa e controproducente.

È significativo che nel luglio 1964 – poche settimane prima di stendere il memoriale di Yalta alla vigilia della sua morte – in una riunione della direzione comunista Togliatti abbia sintetizzato così l’atteggiamento da prendere: «Evitare che il nostro orientamento di fondo resti solo propagandistico. Nell’ultimo anno abbiamo un po’ radicalizzato la nostra linea, probabilmente sotto l’influenza della discussione internazionale nel movimento comunista. […] Sarebbe errato se facessimo un programma comune col solo Psiup». Togliatti aveva capito che per il Pci il grande pericolo era costituito dalla marginalizzazione del partito con la continuazione di una politica di centro-sinistra: proprio ciò che Moro e Nenni ottennero riuscendo a formare un nuovo governo. Qualche anno dopo invece, morto Togliatti, i comunisti italiani avrebbero cambiato atteggiamento, sostenendo la campagna del “golpe”. Ma, come avvertiva Togliatti nel 1964, è molto pericoloso abbandonare la politica ed evadere nella propaganda. Significa rinunciare implicitamente a svolgere un ruolo incisivo nella politica nazionale e nel governo del Paese. Non vale solo per il racconto “golpista” della crisi del luglio 1964, ma anche per tutta la narrazione che ha spiegato la subalternità politica dei comunisti e di gran parte della sinistra nella storia dell’Italia repubblicana con l’azione di forze oscure, di azioni illegali, di complotti internazionali ecc.

Tutto questo, ovviamente, c’è stato e non si deve dimenticare la tragica stagione della strategia della tensione e di tremendi attentati come quelli di piazza Fontana a Milano, di piazza della Loggia a Brescia e della stazione di Bologna. Anche per questo la pregiudiziale antifascista dell’Italia democratica è stata e resta fondamentale. Ma, in primo luogo, il cosiddetto “golpe De Lorenzo” non è iscrivibile in questa strategia e non è equiparabile a questi attentati (lo conferma anche quanto riportato nel “memoriale” attribuito a Moro durante la prigionia delle Brigate rosse, che derubrica la crisi del luglio 1964 un episodio minore, molto meno importante della crisi Tambroni del 1960). In secondo luogo, anche per questa strategia e per questi attentati la domanda storica fondamentale è: come sono entrati in rapporto con la politica dei partiti e l’azione delle istituzioni? Quanto e come, cioè, sono riusciti a incidere sulle vicende principali della Repubblica dei partiti che a giudizio quasi unanime sono stati determinanti per la storia del-l’Italia e degli italiani? È una domanda che si evita spesso di affrontare, preferendo coltivare confuse teorie di “doppio Stato” che diventano nei fatti confuse teorie di “storie parallele”. È come se non ci fosse stata una sola storia dell’Italia repubblicana – bella o brutta che sia – ma due storie differenti, parallele l’una all’altra: quella “ufficiale” della Repubblica dei partiti e quella “criminale” fatta di colpi di Stato, attentati, stragi, gruppi armati ecc. Ma bisognerebbe anzitutto dimostrare l’esistenza di un unico filo conduttore tra tutti gli eventi attribuiti alla “storia parallela”, da Portella delle Ginestre al caso Moro che in realtà sono in gran parte slegati tra loro. C’è poi un problema ancora più grande: come superare l’assurdo di più storie parallele?

La storia dell’Italia repubblicana è stata necessariamente una sola, anche se in essa sono confluiti molti elementi diversi, contraddittori e quant’altro. Né basta a riunificare le due storie attribuire – senza prove – le colpe della “storia parallela” ai responsabili della “storia ufficiale”, riconducendole a “un grande vecchio”, alla Dc o ad alcuni suoi leader, all’intera classe politica ecc. Bisognerebbe infatti anche dimostrare che le presunte manovre segrete dei principali leader politici italiani siano riuscite ad annullare gli effetti di ciò che essi stessi facevano in pubblico, nei partiti e nelle istituzioni. È invece accaduto l’opposto: le vicende dell’Italia democratica mostrano la vittoria complessiva – malgrado debolezze, errori, complicità – della “storia ufficiale” su quella “criminale”. È questo l’elemento principale di unificazione tra le due presunte “storie parallele” che in realtà fanno parte di un’unica storia. Naturalmente, la Prima Repubblica e i suoi protagonisti possono non piacere. Nei confronti dell’una e degli altri tutte le critiche sono legittime, molte sono opportune, alcune decisamente fondate. Ma l’efficacia di tali critiche è fortemente indebolita o addirittura svuotata da miti come quelli fioriti intorno ai fatti del luglio 1964 e, più in generale, dalle narrazioni sulle “storie parallele” d’Italia. Se Fanfani, Moro e Andreotti sono stati responsabili di orrendi delitti, le critiche anche fondate a ciò che hanno fatto alla luce del sole diventano irrilevanti.

Questo tipo di miti, narrazioni e teorie mostrano un problema della sinistra italiana durante la Prima Repubblica: la difficoltà di fare i conti con i problemi reali, compresi i propri limiti e i propri errori. Sono miti, narrazioni e teorie poi ereditati dalle forze di sinistra della Seconda Repubblica, compresi anche gli ex comunisti che in questo modo hanno finito per svalutare drasticamente anche ciò che i comunisti – e cioè loro stessi – hanno fatto d’importante per la democrazia italiana. Non sono meriti da poco, come riconosce in queste pagine Mario Segni. A me pare che siano riportabili soprattutto al contributo dato dalle forze di sinistra a un più ampio schieramento antifascista. Ma questi meriti risultano azzerati se l’antifascismo non è servito nei confronti di grandi poteri che hanno occultamente dominato la democrazia italiana, se le altre componenti dello schieramento antifascista con cui le forze di sinistra hanno collaborato – in primo luogo i cattolici – erano in realtà alleati dei fascisti ecc. Se, insomma, la “vera” storia d’Italia non è stata quella che conosciamo in base a una massa ingente di informazioni, bensì un’altra, non dimostrabile e sfuggente, ma avvertita come “più vera” perché fondata su un “io so” superiore a ogni verifica o contestazione.

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