venerdì 18 settembre 2015
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Le fiamme accerchiano una casa di povera gente, il fumo avvolge i corpi e ogni cosa: soffre la terra, soffre l’uomo che la coltiva. La dignità è sepolta nei solchi che ora accolgono i fusti taglienti della canna da zucchero, la giustizia non riesce a fendere quella coltre di oppressione e rassegnazione. Eppure, una vecchia donna tiene alta la testa affondando il suo orgoglio di madre e di nonna in quelle zolle inumidite dal sudore e dalle lacrime, mentre una famiglia, la sua famiglia, si appresta a migrare. Un mondo fragile è il titolo del film del colombiano César Augusto Acevedo nelle sale dal 24 settembre. Il film è stato girato a El Tiple, comunità rurale a una mezz’ora da Cali, in Colombia. Alfonso è un vecchio contadino, un cortero: ha tagliato per anni la canna da zucchero, è fuggito da quel regime di semi-schiavitù ma dopo diciassette anni torna dalla sua famiglia per accudire il figlio Gerardo, ammalato e morente. Ritrova la sposa, la nuora e il nipote. E un dilemma: restare tra quella canna da zucchero che brucia oppure partire verso una città ignota. Il titolo originale, La tierra y la sombra, «è la metafora che attraversa tutto il film – spiega Acevedo –: la terra è la storia, la memoria e l’identità degli uomini, dunque si corre un rischio quando si decide di abbandonarla. La mia intenzione era riscattare quel sentimento eroico che vedo nella lotta e nella resistenza dei contadini che ogni giorno tentano di conquistare la loro dignità e libertà affrontando la fatalità del progresso e la fragilità dell’oblio. L’ombra, invece, è quella che nel film proietta un albero accogliendo tutti i momenti di condivisione di questa famiglia. Per me può rappresentare un luogo fisico o quello che semplicemente portiamo dentro di noi e al quale sempre torniamo quando tentiamo di incontrare le persone che più amiamo».Il titolo italiano del film, invece, richiama una bella immagine evocata da papa Francesco nella sua ultima enciclica. È con questo stesso spirito che lei ha girato il film?«Non possiamo continuare a distruggere il pianeta in cui viviamo, a quella terra che ci permette di vivere arricchendo la nostra esistenza e il nostro spirito. In questo mondo fragile le nostre vite sono costantemente in pericolo e solo il potere dell’amore, del perdono e della resistenza ci può salvare. Vivere è un miracolo e dobbiamo recuperare la nostra fede in un mondo migliore». Che cosa rappresenta il ritorno di Alfonso in seno alla famiglia che aveva abbandonato?«Non è soltanto il modo per obbligare i personaggi a confrontarsi con le loro passioni o quei sentimenti che pensavano di non avere nel cuore, ma è lo sguardo che torna a scoprire un mondo distrutto fisicamente e nelle emozioni dal potere prepotente del progresso. È l’unico che, sotto il peso di una colpa, tenta di riscattarsi proteggendo ciò che rimane di prezioso del suo passato: la famiglia. C’entra anche la mia esperienza, perché il film nasce da un mio dolore personale, l’ho cominciato a scrivere dopo la morte di mia madre. Volevo mostrare con il film la difficoltà a mantenere i legami con le persone del passato che più abbiamo amato e l’importanza e la dignità di appartenere a una famiglia. E anche mostrare quei luoghi – la campagna, i campi coltivati a canna da zucchero – da cui provengo e che fanno parte del paesaggio emozionale della mia vita. Li percorrevo con mio padre ogni giorno. Ma non mi sono mai rassegnato ad accettare quel sentimento di perdita che immobilizzava e immobilizza ancora tutti gli abitanti di quella regione. Ho avvertito l’urgenza, invece, denunciare i problemi sociali che mettono a rischio la memoria, la storia e l’identità di tutto un popolo». Uomo e natura sembrano accomunati da un’unica sofferenza. «La mia intenzione era mostrare una terra devastata da un’idea paradossale di progresso che sfrutta gli esseri umani a beneficio degli interessi economici di pochi. Questo genera malattie del corpo e nello spirito. Ho creduto che la forma più caustica per rappresentarlo fosse creare un paesaggio fisico ed emozionale pieno di segni di distruzione e di morte, che le parole non possono esprimere. Inoltre, mi interessava esprimere attraverso il film l’approccio tra le persone che si amano e che talvolta è reso possibile soltanto attraverso il dolore e l’idea di sacrificio, senza il quale non si riesce a superare i nostri limiti o incontrare il perdono».Strenuo attaccamento alle origini, alle tradizioni, al luogo della vita e a quello dove busserà la morte contraddistingue il personaggio di nonna Alicia, interpretato da Hilda Ruiz. Lei affida tutto questo a una anziana donna. Perché?«Credo che le donne siano il motore delle famiglie. La loro forza, abnegazione e sacrificio sono motivati dall’amore. Il caso di Alicia è speciale: lottando incessantemente per la sua famiglia capisce che la sua esistenza non solo è legata a quel sangue ma anche a quel luogo, che per gli altri non ha più alcun valore. Soltanto chi ha amato e lottato tutta la vita per la propria terra può capire il valore dell’attaccamento e dell’identità. Vorrei che l’impossibilità di rinunciare al passato fosse colto dallo spettatore come un atto di resistenza e di fede e che dà senso alle nostre vite». Che posizione prende il film nei confronti dello sfruttamento dei poveri e del lavoro?«Semplicemente voglio mostrare un mondo in cui tutti noi falliamo proprio accettando quel progresso che non ha scrupoli nello sfruttare gli esseri umani o nel distruggere la natura. Con tutte le problematiche sociali che questo scenario provoca: povertà, malattie, esodi di massa... Do visibilità alle vittime di queste situazioni all’interno del mondo rurale».Emerge il rimpianto per valori legati alla civiltà contadina che anche in Colombia sembrano perduti. È così?«Il mio Paese è il secondo al mondo per numero di sfollati. Intere generazioni si sono dovute spostare dai loro luoghi di origine per il flagello della violenza armata, abbandonati spesso da uno Stato che si vende al miglior offerente. I nostri campi sono in agonia, rimangono vuoti. Saperi ancestrali e secoli di cultura si perdono nella fragilità dell’oblio. Ma il film non è il rimpianto per un passato bucolico: è un atto di resistenza che pretende di mettere la società davanti a uno specchio perché possa vedervi riflessa la sua indifferenza. Il microcosmo formato nel film da una famiglia, una casa e un albero ci mette a confronto con lo sterminio della natura e dei valori contadini. Non tutto è perduto, ma il panorama continuerà ad essere avvolto da quel fumo della canna da zucchero che brucia se rimaniamo inerti e impauriti».
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