sabato 1 aprile 2023
Il campionato degli atenei Usa è un torneo sempre più seguito che ha cambiato lo sport mondiale: come 60 anni fa il trionfo della “gesuita” Loyola che per prima schierò i giocatori afroamericani
I Gonzaga Bulldogs a canestro contro Uconn nel campionato di basket universitario (Ncaa)

I Gonzaga Bulldogs a canestro contro Uconn nel campionato di basket universitario (Ncaa) - USA TODAY Sports

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È il campionato più pazzo del mondo, non a caso la fase finale viene chiamata “ March Madness”, follia di marzo. E anche quest’anno la Ncaa, il torneo di basket dei college statunitensi, non ha tradito le attese. Sovvertendo tutti i pronostici, alla Final Four sono approdate tre debuttanti su quattro: San Diego State, Florida Atlantic, Miami e UConn. Di queste università infatti solo gli “Huskies” di Connecticut (noti come UConn) possono vantare quattro titoli in bacheca. Sono loro anche i grandi favoriti al titolo, perché le altre possono considerarsi tutte “Cenerentole” (“ Cinderella”, così come viene definita abitualmente la squadra rivelazione).
La favola di Abramo, talento azzurro
In un’edizione così fiabesca, gli appassionati italiani hanno seguito soprattutto Abramo Canka, 21enne nato a Genova da padre senegalese e madre albanese che veste la canotta di Ucla Bruins, la celebre università di Los Angeles. Ha imparato a palleggiare nei Tigrotti Don Bosco Sampierdarena per poi maturare nel vivaio della Stella Azzurra Roma. Prima di spiccare il volo per gli States, con il mito di Kobe Bryant in testa, un bagaglio di esperienze importanti: l’esordio a soli 16 anni in Serie A2, con i Roseto Sharks, l’approdo in Russia con il Lokomotiv Kazan e poi l’esperienza in prestito con i lituani del Nevezis. Lo scorso agosto il grande salto Oltreoceano ai Bruins, una delle squadre più prestigiose della Ncca. Ma Abramo non dimentica certo le sue origini. « Ho sempre vissuto nel centro storico di Genova, grazie all’aiuto di tante famiglie e grazie alla comunità Papa Giovanni: hanno aiutato tantissimo mia madre durante la mia infanzia». Non ci sono dubbi su chi sia il suo idolo: « È mia mamma – ripete spesso Lei ha fatto tanti sacrifici. Ha preso un barcone per inseguire i suoi sogni, poi sono subito nato io, mi ha cresciuto da sola con l’aiuto di case famiglia, gente dei vicoli e del centro e tantissimi amici. Per me è stata una figura davvero importante. Senza di lei non so cosa avrei fatto».
Gonzaga e la tradizione degli atenei cattolici
I Bruins erano tra i grandi favoriti del torneo ma sono stati battuti dai Bulldogs di Gonzaga, l’ateneo gesuita intitolato al santo italiano del XVI secolo, san Luigi Gonzaga. Sono anni ormai che questa università è protagonista della fase finale del campionato, la “ big dance”, il “gran ballo”. Negli ultimi sei anni ha disputato anche due finali senza mai raggiungere l’apoteosi del primo titolo. Quest’anno gli “Zags” (nome di battaglia dei cestisti di Gonzaga) sono ancora approdati tra le migliori otto ma si sono dovuti arrendere a UConn. E comunque confermano la grande tradizione degli atenei cattolici nella Ncaa (l’anno scorso la “Cinderella” furono i sorprendenti Peacocks di Saint Peter’s , piccolo ateneo dei gesuiti a Jersey City). Sin dal XIX secolo, agostiniani, maristi, gesuiti, proposero nei loro college la pallacanestro. E questo sport si rivelò un formidabile strumento di evangelizzazione e integrazione per migliaia di immigrati provenienti dall'Europa. Quest’anno ricorrono poi i sessant’anni dello storico titolo dei “Ramblers”, la squadra di basket della Loyola University di Chicago. L’ateneo gesuita in questi anni è tornato alla ribalta anche per la sua prima tifosa a bordo campo: suor Jean Dolores Schmidt, 103 anni, assistente spirituale della squadra.
Sister Jean e la vittoria epocale dei Ramblers
Sciarpa al collo e sorriso contagioso, “Sister Jean”, vera leggenda vivente del basket collegiale, ha appena pubblicato un libro di memorie “ Wake up with purpose” (“Svegliati con uno scopo”) in cui racconta anche il suo amore per la palla a spicchi, tra cui la clamorosa Final Four dei Ramblers nel 2018. Spicca la gloriosa storia di un ateneo che oggi festeggia anche l’anniversario del leggendario titolo del 1963: una vittoria epocale mettendo in campo quattro giocatori di colore in un tempo in cui vigeva la regola non scritta di farne giocare al massimo tre. Il successo di Loyola fu una rivoluzione per il basket ma anche l’inizio di una nuova era di uguaglianza razziale nello sport. A riprova che la pallacanestro (e non solo) deve molto ai college. Del resto la storia dei canestri è partita proprio in un ateneo, lo Springfield College in Massachusetts, nel lontano 1891 grazie al professor James Naismith. Oggi la Ncaa è un evento che riesce a coinvolgere gli States anche più della Nba: basti pensare che vi prendono parte più di 300 college che diventano 68 nella fase finale. Un torneo sui generis, in cui gli eroi di oggi non necessariamente diventeranno i fenomeni di domani, ma magari solo bravi medici, avvocati o ingegneri. Un campionato così seguito che la Final Four si gioca ormai negli stadi del football americano, come quest’anno a Houston all’Nrg Stadium, impianto da oltre 70mila posti. E il flusso crescente di denaro tra merchandising e diritti Tv ha provocato negli ultimi anni anche diversi scandali. Con episodi di corruzione da parte di agenti e coach nel reclutare ragazzi a suon di tangenti.
Business e canestri, il monito di Coach K
Contro questa deriva si è scagliato in questi giorni il grande assente di questa edizione: Mike Krzyzewski per tutti “Coach K”. L’anno scorso ha fatto piangere tutti mettendo il punto alla sua straordinaria carriera dopo 42 anni in panchina. Ha legato il suo nome all’Università di Duke con cui ha vinto 5 titoli Ncaa, ma ha anche guidato la nazionale maggiore Usa (cogliendo 3 ori olimpici e 2 titoli mondiali). Ha confessato di recente che il campo non gli manca, ma che è orgoglioso di aver parte di questo mondo. «Non c’è sport che conquisti l’intero paese per un mese come questo torneo, e per me far parte di questo torneo per oltre quattro decenni è stato un onore incredibile». Allo stesso tempo ha tuonato contro il business che minaccia soprattutto gli atleti. Di origini polacche, Coach K non ha mai nascosto la sua fede cattolica: «Sono stato davvero fortunato ad avere dei genitori e una famiglia che credevano in Dio». E grato per i talenti ricevuti non nasconde la sua soddisfazione più grande: «Già a 16 anni volevo essere un allenatore e un insegnante. Sono stato in grado di fare ciò che ho amato per tutta la vita».

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