mercoledì 11 gennaio 2023
Dalle lotte per i diritti di Martin Luther King alle simboliche “nuove foreste” urbane dove si batteva Malcom X, fino al Black Lives Matter: l’urgenza di una nuova lettura
Manifestanti del movimento Black Lives Matter

Manifestanti del movimento Black Lives Matter - Epa/C.J.Gunther

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La stratificazione sociale delle relazioni disuguali tra gli umani negli antichi clan (nelle “comunità originarie”) africani, più precisamente del Africa centrale, in che rapporto si colloca verso la storia e la politica dell’Occidente? Con il “cervello sociale” complessivo di oggi? È il cuore delle tante domande, di parziali interessanti risposte, che emergono da due recenti pubblicazioni sui temi che mettono in evidenza i processi di accumulazione di ricchezza sociale e culturale prodotta storicamente dalle componenti popolari afroamericane degli Stati Uniti. Eredi di dolorosissime storie di schiavitù, integrate in parte minore nell’establishment nordamericano. Hanno espresso, qualche anno fa anche un importante presidente come è stato Barak Obama. Formidabile cammino. Il bianco e il nero di Aurélia Michel, e No justice, no peace di Jack Orlando: questi i due studi da leggere, integrandoli, l’uno con l’altro. Muta, anche solo e semplicemente con le dinamiche schiavistiche, la consistenza di quelle forze produttive che sono il risultato della messa a lavoro degli “scartati”, degli emarginati dentro i clan, arrivando però a deboli combinazioni tra economia, schiavismo e povertà. Mentre l’agricoltura o la caccia grossa davano la possibilità a quelle piccole comunità di esistere, il tempo e gli stessi cataclismi non permettevano grandi aggregazioni claniche. La maggiore crescita in certi luoghi delle forze produttive accresce lo sviluppo di piccoli villaggi e di paeselli. Nello stesso tempo in questa disseminazione di villaggi emergono frazioni sociali di persone che divengono utili agli umani più forti e più brutali: i capicaccia che spartiscono i pezzi di carne ai loro adepti più vicini. Alla base della storia africana (ma che ha caratteri generali universali) occorre ricordare che esiste una certa tragicità. Parte da quella “lacerazione originaria”, da un profondo fenomeno luttuoso, che produce iniziali elementi auto-organizzativi nei “deboli” che anche loro ambiscono alla spartizione della caccia grossa. Donne e uomini sono in parte malleabili, ma esistono nei loro comportamenti delle costanti profonde radicate nella psiche, le cosiddette regolarità antropologiche rappresentate dall’odio, dall’invidia, dal senso di prepotenza, dall’aiutantato, all’obbedienza, indipendentemente dalla stagione e dal territorio in cui si nasce. Per molto tempo, anche nel dibattito storico, fa notare la Michel, l’Africa è stata considerata un continente senza storia e senza civiltà. Questa visione deriva chiaramente dall’immaginario razzista del colonialismo ottocentesco e dalle dinamiche dell’imperialismo che concepiva il dominio europeo come il frutto di «scatenanti volontà di civilizzazione » di per sé ritenute superiori. Invece l’area a sud del Sahara apparve ai primi esploratori europei del ’400 e del ’500 abitata da popoli con usanze e credenze differenti da quelle europee, ma non inferiori. In contrapposizione al dolore degli schiavi - “ermeneutica della schiavitù”, spiega Aurélia Michel in illuminanti pagine - nella cultura occidentale si parla di paideia come radice greca di una storia millenaria europea che si nutre anche di altri profondi contenuti educanti: la logica e la misura sono le sue caratteristiche. L’azione stabilisce, attraverso le pratiche dell’innovazione e del conflitto, nuove conquiste scientifiche. Nelle speranze redentive afro-americane invece gli individui, uomini e donne, divengono motore di espansione e nuova “ricchezza sociale” insorgendo. Poiché solo attraverso l’insurrezione violenta sarebbe possibile anche per loro realizzare piena cittadinanza, quindi identità educante. Per Franz Fanon - straordinaria figura di militante algerino anticolonialista e lucido analista delle nevrosi dei colonizzati - descrivere queste fenomenologie di decolonizzazione significa enfatizzare il ruolo “terapeutico” della violenza anticoloniale come drammatico passaggio di fuoriuscita da nevrosi colme di paura e di atteggiamento passivo. È il noto studio de I dannati della terra che centralizza l’attenzione su questo vero e proprio corpo a corpo della dialettica servo/signore. Nel Fanon maturo si troveranno analisi psico-politiche sulle lotte di liberazione nazionale come lotte per la vita, come fonte di mutamenti in un senso quasi biologico. Certo il pericolo di un incontrollato neorazzismo dei subalterni c’è. Qui vi è l’intreccio con la pubblicazione di Jack Orlando. Partendo da queste dinamiche, diciamo così, “separazioniste” (per guarire dai traumi coloniali e post-coloniali) No justice, no peace getta lo sguardo sulla crisi economica e finanziaria che colpì gli Stati Uniti del 2008. In quegli anni riesplosero rivolte nei ghetti neri delle grandi metropoli del Nord America. Quei conflitti miravano ad abbassare la soglia della brutalità poliziesca tradizionalmente razzista nelle città del nord degli Stati Uniti. Riemergono in quelle rivolte memorie di resistenze, evasioni, sommosse delle rivolte degli schiavi dell’Ottocento del Sud degli Stati Uniti. In questo saggio vi sono ricostruzioni storiche in cui le peripezie che il movimento afro-americano ha iniziato a realizzare negli anni Novanta dell’Ottocento. Tutto questo gettò le basi per la costruzione di un vasto movimento per i diritti civili che sarebbe poi esploso nel secondo dopoguerra. Poi questo movimento di integrazione interraziale, diciamo così, di cittadinanza democratica, subì tali e tanti rallentamenti da far disperare le componenti anche moderate (come quella del pastore battista Martin Luther King) e attorno al movimento di studenti bianchi contro la guerra in Vietnam maturarono forti movimenti radicali dei giovani neri dei ghetti urbani. È l’epoca decisiva dei riots di Watts, Chicago, Los Angeles, New York tra il 1965 eil 1966. Ci furono mobilitazioni senza precedenti e sorse una nuova avanguardia afro-americana che ebbe - in Malcolm X, in Stokley Carmichael, Bobby Hutton, Eldrige Cleaver e altri nuovi leader - la capacità di collegare lotte antirazziste con lotte di classe. Usando, per quello che era utile solamente, il marxismo come teoria che scopre e studia che prima c’è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (la famosa “rapina” della letteratura anticoloniale latinoamericana) e poi il razzismo. Gli anni Sessanta del secolo scorso sono un momento decisivo nella crescita conflittuale dei processi di integrazione della minoranza afroamericana. “Megatrend“ che trovano nei centri urbani, nelle grandi metropoli quelle simboliche “nuove foreste” (nella capacità di muoversi con fluidità, con rapidità nell’opposizione violenta) nel “fare comunità e socie-tà”, per continuare a battersi contro la polizia razzista e, in quegli anni, contro una maggioranza bianca passiva. Passaggio decisivo nei processi di integrazione e affermazione fu l’elezione alla presidenza di Barak Obama. Questa elezione ebbe due risvolti: il primo un vero salto in avanti come sintesi di tanti sacrifici e battaglie dei precedenti decenni e di presenza delle élite nere nelle aree accademiche, scientifiche e dei media. È su queste basi che il movimento statunitense Black Lives Matters, nato nel 2013, ma salito agli onori della cronaca internazionale nel maggio 2020 a causa dell’omicidio di George Floyd per mano della polizia, crebbe fino a diventare un coordinamento nazionale più che una vera e propria organizzazione politica. Se dunque a metà anni Settanta le città venivano pensate dai differenti movimenti rivoluzionari neri come possibili avamposti da conquistare in una strategia di separazione dai bianchi e di conquista di potere, dopo le recenti morti del 2015 e del 2016 di militanti neri e dopo anche l’avanzata istituzionale al seguito del primo presidente nero, oggi il terreno su cui tale domanda di potere si può formulare, deve essere fortemente ripensato.

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