sabato 23 febbraio 2019
Un romanzo dell'ex ministro Besnik Mustafaj racconta in una saga familiare la difficile situazione albanese come un dramma esistenziale che affonda le radici nella secolare privazione della libertà
La sindrome oscura che divora l'Albania
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«Il mio nome è Bardhyl Huta». La citazione è evidente e anche difficile da supportare per qualsiasi autore contemporaneo senza cadere nel provincialismo. È lo stesso incipit usato da Melville per Moby Dick: «Il mio nome è Ismaele». Eppure anche in questa Piccola saga carceraria, romanzo di Besnik Mustafaj (Castelvecchi, pagine 204, euro 18,50), proveniente dalla "provincialissima" e minuscola Albania, a fronte degli ultimi due secoli di letteratura americana, c’è qualcosa di profondamente epico. Di quella profondità che mostra l’animo umano in quelle sfaccettature e diaboliche contraddizioni che si rivelano sempre uguali a tutte le latitudini, sia geografiche che letterarie. Anche Bardhyl, come Ismaele è un sopravvissuto, destinato a portare per sempre sulle spalle e senza colpa l’immane tragedia della vita, anche lui si trova a lottare con un leviatano che ha le sembianze esteriori della dittatura e quelle misteriose di un demone che rode da dentro, consuma le anime, obnubila i cervelli.

Naturalmente le similitudini finiscono qui. Mustafaj non può lottare con la grandezza di Melville. Il suo libro però è capace di farci entrare nel dramma interiore del popolo albanese con una prosa che ne rende le inquietudini e le ansie. Inquietudini che la cronaca di questi giorni torna a mostrarci con evidenza: si ripropongono da secoli e, insolute, di tanto in tanto riemergono all’attualità come un mostro dal mare della storia. Bardhyl, detto Luli, è un detenuto politico, ultimo di una dinastia il cui destino, da inizio ’900, si è più volte incrociato col carcere: ai tempi della monarchia, con la dittatura fascista, col regime comunista. Il nonno, Oso Huta, era un eroe del popolo che ribellatosi ai gendarmi del re trascorre in prigione gran parte della vita. Suo figlio, Omer Huta, padre di Bardhyl, cresce nel mito del padre. Se lo raffigura enorme e dotato di una forza sovrumana, capace di sbaragliare il nemico.

Per Omer il carcere è come una medaglia, una cosa che solo gli eroi possono meritarsi. Poi, un giorno, a 12 anni, con grandi aspettative si reca a far visita al padre e il mito si infrange: provatissimo dalla severa detenzione è magro, minuto, debole, succube delle prevaricazioni dei carcerieri. Il trauma è così potente da condizionare per sempre la vita di Omer. Se per la gente Oso resta un eroe, per Omer è solo una figura da cancellare, un’umiliazione che lo conduce a vivere nell’ombra, carceriere di se stesso. Incompreso al suo unico figlio, che nel nonno vede un esempio e nel padre uno stile da rifuggire.

Il destino vuole che Bardhyl si innamori di Linda, bella e sensuale, ma con una storia familiare anch’essa radicata nel carcere. Sua madre, Selvi, è la figlia di Hyqmet Hidi, che era stato una guardia nel carcere politico: orgoglioso del suo lavoro col re, lo aveva proseguito con orgoglio anche durante il fascismo. Avrebbe voluto fare altrettanto con i comunisti, ma gli era stato impedito. Lui, senza più carcere in cui lavorare e senza più carcerati da controllare era entrato in crisi di rigetto della vita: un uomo lugubre e intrattabile, per questo inviso alla moglie e ai figli. Così, al momento di raccontare la sua storia a un giornalista aveva compiuto una strage e si era suicidato.

In un contesto in cui il mondo, l’Albania, appare come un carcere e gli esseri umani sembrano dividersi fra carcerieri e carcerati è del tutto normale vedere Selvi tentare in tutti i modi di impedire il matrimonio dei due "predestinati", Linda e Luli. In qualche modo è obbligata dalla storia, ma anche da una cultura ancestrale che sembra pervadere i protagonisti del romanzo: gli Huta hanno il carcere nel sangue, così come gli Hidi, un marchio di disperazione che si trasmette per linea ereditaria. Lo stigma di chi, privato della libertà, nel fisico come nell’intelletto, non riesce davvero a vivere se non nella cattività. E non importa se la subisci o la fai subire, il risultato è lo stesso e sempre conduce con sè il simbolico dramma racchiuso (rinchiuso) nella parola "carcere". Così anche Bardhyl detto Luli finisce nel carcere politico, questa volta quello comunista.

Dopo mesi di buona condotta gli viene concesso di incontrare la moglie per una notte d’amore. Un episodio intorno al quale si dipana il cuore del libro e che in qualche modo ne fornisce il significato. Mustafaj nel raccontarlo riesce a ottenere un 'effetto inquietudine' che si trasmette dolorosamente al lettore. Quell’incontro che Bardhyl e Linda avevano lungamente atteso e minuziosamente preparato si trasforma nel disvelamento del dramma (qui il rimando palese è a 1984 di Orwell) di una condizione umana in cui l’assenza di libertà indotta dall’esterno è così "totalitaria" da trasformarsi in un modus vivendi imposto dall’interno: il carcerato diventa carceriere di se stesso. Il semplice sospetto di essere controllato gli impedisce di abbandonarsi fino in fondo al desiderio e all’amore della moglie. In una prospettiva così alienante da spingere Linda nelle settimane che seguono a domandarsi se il frutto di quella loro 'copula meccanica' che porta nel grembo non sia portatore di un analogo destino: figlio di un detenuto politico avrebbe finito per disprezzare suo padre oppure, diventato guardiano, sarebbe stato inviso alla moglie e ai figli?

Un dramma pervasivo che si inserisce in quella vasta "letteratura del carcere" fiorita in Albania con la caduta di Enver Hoxha. Una letteratura della memoria: per non dimenticare e nel tentativo di metabolizzare. Mustafaj, però, sembra andare oltre. Quel che fotografa non è semplicemente il passato del popolo albanese, ma è forse l’immagine del suo dramma esistenziale. Bardhyl, nell’analizzare il fallimento della notte d’amore con Linda, attribuisce al carcere (il totalitarismo) il potere di aver «ucciso il coraggio di cercare il piacere della vita... Perduto quel coraggio, perdere il gusto della vita diventa quasi un’autoconsolazione... Senza che ci si renda conto viene lentamente a crearsi un altro gusto che banalizza il crimine. Direi che le dittature arrivano piano piano anche come conseguenza di una crisi profonda, non identificata o almeno non confessabile che vive la parte maschile della nazione».

Una lettura sulla quale si potrebbe discutere all’infinito. Riguardo alla sua attualità, che vale per l’Albania, ma non solo, non si può dimenticare che Mustafaj è stato nel 1991 cofondatore con Sali Berisha del Partito democratico che accelerò la fine del regime (1992). Ambasciatore a Parigi fra il 1992 e il 1997 è stato anche ministro degli Esteri dal 2005 al 2007. Ha lasciato la politica nel 2009 per dedicarsi alla scrittura.

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