lunedì 30 luglio 2012
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Un amico che aiuta gli atleti a guardare più in alto dell’oro. Monsignor Mario Lusek, 60 anni, marchigiano di Fermo, responsabile Cei della pastorale del Turismo e dello Sport e cappellano della squadra italiana da Pechino 2008, parla di questa Nazionale e della sua seconda avventura olimpica. Com’è il clima?«Premetto che tra sport italiano e Chiesa cattolica c’è un lungo rapporto di compagnia e amicizia. Questo è importante perché da sempre lo sport è per noi un veicolo educativo grazie agli oratori, scuola di sport e di vita che molti ci invidiano e dalla quale provengono molti atleti professionisti o comunque praticanti. Il presidente del Coni Petrucci ha avuto anni fa l’intuizione di portare un cappellano alle Olimpiadi come accompagnatore, il che mi permette di stare ovunque, anche in campo, accanto ai nostri atleti e di conoscerli». Sono molti i credenti tra gli azzurri?«Conosco i più esperti. C’è Giovanni Pellielo, plurimedagliato nel tiro a volo, molto credente e laureato in teologia. O la stessa Vezzali, la nostra portabandiera, con la quale c’è un buon rapporto e che è una persona strutturata, agonisticamente viva e capace di esprimere i valori della fede e dello sport. I più giovani, invece, li sto incontrando». E la Pellegrini?«L’ho conosciuta a Pechino, a Londra non l’ho ancora incontrata. Ma in generale gli atleti, come i tecnici e i dirigenti hanno tutti avuto un’educazione cristiana, la mia presenza è quindi ben accetta. Non impongo forme rigide e l’assistenza non è solo liturgica. Celebro la Messa, poi il dialogo è libero. Gli incontri avvengono spontaneamente a tavola, oppure nel Villaggio, dopo gli allenamenti o prima di una gara». Come in parrocchia?«Sì, il Villaggio in queste settimane diventa la mia parrocchia. Celebriamo tre messe quotidiane nello spazio multireligioso insieme ai due sacerdoti che la Chiesa cattolica inglese ha mandato qui. Sta facendo un lavoro serio in queste Olimpiadi, come dimostra la presenza alla cerimonia d’apertura allo Stadio Olimpico dell’Arcivescovo di Westminster Vincent Nichols alle spalle della regina Elisabetta. Dicono che la parrocchia olimpica sia piuttosto vivace».Conferma?«Non mi pare, non dimentichiamo che qui vivono sì giovani, ma sono atleti al top della vita sportiva. Se vanno a dormire presto o no dipende dai loro allenatori».Di cosa parla con gli azzurri?«Prevalentemente di gare e allenamenti e da qui spesso nascono riflessioni sulla propria storia personale. Ci sono atleti che hanno alle spalle una vita di sudore e disciplina, per i quali le Olimpiadi rappresentano una meta inattesa. Soprattutto negli sport “minori” ci sono storie sotto traccia di grande umanità». Qual è il minimo comune denominatore di un Villaggio dove convivono le star planetarie dell’Nba con gli anonimi eroi di sport quasi ignoti?«Chi è qui accetta i valori dello sport. La differenza sta nel come uno li vive, a quale pressione mediatica ed economica è sottoposto. Nessuno ama perdere, ma se uno è sereno, la vittoria sportiva non diventa esaltazione, ma un premio per gli sforzi compiuti in una gara con se stessi. La cifra dello sportivo la si vede dai comportamenti dopo una vittoria o una sconfitta. Diciamo che c’è un atteggiamento “dopato” anche nella vita». A proposito, al villaggio si parla di doping sportivo?«Se ne parlava di più a Pechino».Per l’Italia che importanza ha una vittoria olimpica?«Molta per il momento che vive il Paese. Lo ha ribadito lo stesso presidente Napolitano con la sua presenza qui a Londra. Del resto o abbiamo visto agli ultimi europei di calcio, lo sport è un mezzo di coesione sociale straordinario e una medaglia all’Olimpiade può darci coraggio testimoniando che si deve ripartire dai valori del sacrificio e della fatica».Arriveranno in alto gli azzurri a Londra?«Sportivamente me lo auguro, ma un atleta che gareggia a un’Olimpiade è già un esempio sportivo ed etico per i giovani».
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