venerdì 24 febbraio 2023
Palazzo dei Diamanti riapre dopo una lunga e discussa sistemazione con una rassegna sui pittori che diedero un nuovo indirizzo all'arte tra Quattro e Cinquecento in area padana
Ercole de' Roberti, "La raccolta della Manna"

Ercole de' Roberti, "La raccolta della Manna" - The National Gallery London

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Quella che Ferrara visse fra metà Quattrocento e la metà del Cinquecento, fu a tutti i livelli una parafrasi dell’“addizione erculea” che fece della capitale estense un centro propulsivo dell’arte rinascimentale. Se quell’estensione e ristrutturazione urbanistica ispirata da Ercole I ed eseguita da Biagio Rossetti, è oggi considerata un frutto della stessa immaginazione del principe prima ancora che del suo architetto, nondimeno il ruolo che Ferrara seppe giocare sul fronte delle arti – col mecenatismo di quella dinastia – va visto all’interno di una politica di governo e di affermazione del ruolo sulla scena italiana ed europea rinascimentale che ebbe soprattutto in Alfonso I, terzo duca estense dopo Borso e Ercole, il suo mentore in quanto figura di principe che tenne il potere in pugno attraverso un controllo delle immagini, come dimostrò lo storico Vincenzo Farinella qualche anno fa in un ponderoso studio.

A questo ruolo, che rappresenta una sorta di completamento del programma avviato a Ferrara con la trasformazione urbanistica, considerata da Bruno Zevi una espressione “anticlassica” rispetto alla stessa prospettiva rinascimentale, le date di nascita e di morte di Alfonso I – 1476-1534 – disegnano l’arco ideale che comprende e completa l’“addizione” voluta da Ercole, in quella della grande pittura ferrarese. A questa, nel 1933 venne dedicata la prima retrospettiva che, pur con grovigli non ancora districati, esaltava la capitale estense come centro di elaborazione di una lingua che arriva fino alle terre patavine e a quelle emiliane romagnole, e collabora a definire ciò che ormai genericamente chiamiamo Rinascimento ben sapendo che sono esistiti molteplici rinascimenti, tanti quante sono le accentuazioni regionali, che fanno parte, a loro volta, di aree geoculturali e macroregionali.

La mostra che il rinnovato Palazzo dei Diamanti dedica a Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa è il sontuoso atto di inaugurazione dei nuovi spazi riadattati e ampliati. Nel 2017 venne scelto, con un concorso internazionale, il progetto vincitore di sistemazione architettonica; il piano, nel 2019, ebbe una battuta d’arresto a causa di una petizione, promossa dalla Fondazione Cavallini-Sgarbi, che convinse l’allora ministro Alberto Bonisoli a suggerire alla soprintendenza di dare parere negativo. Oggi, il progetto è stato realizzato, e a dire il vero le geometrie molto razionali e a loro modo metafisiche, staccano parecchio dall’antico palazzo, il nero dei colonnati e le vetrate giocano a una osmosi visiva con gli spazi aperti, ma non convincono e anzi vien da dire che qui si tratta di “addizioni” mute e poco erculee nel concetto.

Tuttavia, il presidente della Fondazione Ferrara Arte, che promuove l’attuale rassegna, è oggi quel Vittorio Sgarbi, che scatenò con la sua Fondazione la polemica, la cui petizione raccolse le firme di vari intellettuali e politici italiani. Si sa come vanno le cose nel Belpaese un po’ meno bello di quel che ne pensavamo ancora qualche decennio fa.

Sgarbi lo si può capire. Lui è uno dei nipotini eredi della “rivoluzione” portata dall’Officina ferrarese, il celebre saggio con cui Roberto Longhi recensì la mostra, allestita nel 1933 da Nino Barbantini; saggio dove, vero colpo di scena per l’epoca, attribuiva il registro superiore del mese di Settembre del ciclo Schifanoia a Ercole de’ Roberti, artista grazie al quale «l’arte ferrarese viene a riunirsi con la fondamentale tendenza italiana che aveva trovato una prima unità nazionale, un primo accordo fra Nord, Centro e Sud nel convegno di Antonello e di Giovanni Bellini sui moduli sintetici di Piero della Francesca». Nel giovane Ercole Longhi vede il genio ferrarese che si produce in un «personale cubismo, furente e immaginoso», dove «l’arte ferrarese rimane ancora tale per la forza atavica e selvaggia» del suo artista.

Molte e varie le tessere spostate da Longhi con quel testo che metteva ordine là dove l’impianto della mostra del 1933 – con ben 250 opere – lasciava ancora molti margini di incertezza e reiterava alcuni fraintendimenti, su tutti l’esistenza del fantomatico Ercole Grandi, che Longhi faceva uscire di scena considerandolo soltanto l’effetto di «uno stato d’animo affine provato da almeno una dozzina di pittori, sul cadere del Quattrocento». Il critico, inoltre, dissentiva su alcune idee di uno dei suoi maestri, Adolfo Venturi – come ricorda ora nel saggio in catalogo (Silvana) Marcello Toffanello – mentre cercò di gettare luce sulla formazione di Lorenzo Costa, che Venturi aveva posto come uno degli obiettivi della mostra, spostando lo sguardo dal Tura e recuperando invece la prossimità con opere che erano state tolte dal catalogo di Ercole. E così il discorso torna, a distanza di quasi un secolo, sui due protagonisti della mostra attuale.

Ercole de' Roberti, 'I miracoli di san Vincenzo Ferrer' (predella Polittico Griffoni, part.)

Ercole de' Roberti, "I miracoli di san Vincenzo Ferrer" (predella Polittico Griffoni, part.) - Pinacoteca Vaticana

«A dispetto del titolo altisonante», scrive Michele Danieli, che con Sgarbi cura questa nuova “rappresentazione” ferrarese. È il suo modo per dire che anche le mostre più serie pagano dazio allo stereotipo. E qui si parla, appunto, di “Rinascimento padano”, un termine che piaceva molto al mondo leghista, ma che Sgarbi nell’introduzione alla mostra ricorda che fu usato dallo stesso Longhi. Riferendosi alla Padanìa, con l’accento sulla i, lo storico sottolineava che «definirà un’area geografica con caratteristiche distinte dalle prevalenti tradizioni artistiche fiorentina e veneziana». E lo farà inaugurando i suoi corsi all’Università di Bologna sui “momenti della pittura bolognese ed emiliana”. Il fatto è, ricorda ancora Sgarbi, che in quegli anni bolognesi prima Longhi e poi il suo discepolo tormentato, Francesco Arcangeli, quando parlano dell’area emiliana sembrano dimenticarsi di Ferrara. Mentre l’attuale mostra vuole, in sostanza, riallacciare questo ponte.

Ci sono imprese che diventano il punto d’arrivo di una ricerca critica. Non perché aprano scenari rivoluzionari come quelli dell’Officina longhiana, ma perché arriva il momento in cui uno studioso riconosce “i suoi” e li chiama a raccolta, come in una seduta epifanica che sigilli il percorso di una vita di studi e preferenze. Ho l’impressione che questa mostra sia per Sgarbi una divinazione di antenati, un rito d’ammirazione e di riconoscimento. Rinascimento a Ferrara, aperta fino al 19 giugno, non è, scrive Sgarbi, una replica aggiornata della mostra del 1933, ma un percorso in quattro tempi, anzi cinque, perché oltre a Cosmè Tura e Francesco dal Cossa, a cui Ferrara dedicò qualche anno fa un approfondimento, e ora Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa, si completa il quadro con quell’Antonio da Crevalcore che fu una scoperta dello stesso critico. E ci si può chiedere se sia sufficiente parlare di “Rinascimento a Ferrara”, o non piuttosto “di Ferrara” ovvero “ferrarese”, dovendo anche riconoscere che le strade estensi portano a Bologna, vale a dire, pongono «la questione di un Rinascimento bolognese con attori ferraresi».

San Sebastiano

San Sebastiano - Firenze, Galleria degli Uffizi

Su questo vi fu forse qualche attrito nella stessa scuola longhiana quando Carlo Volpe propose per la rivista “Paragone” il saggio Tre vetrate ferraresi e il Rinascimento a Bologna. Longhi, di solito recettivo verso Volpe, sottopose il testo a una lunga quarantena, tanto che Volpe lo pubblicò poi altrove senza ricevere commenti da Longhi. Sgarbi ritiene che la libertà critica di Volpe avesse irritato il maestro, perché il discepolo esibiva nel saggio alcuni dissensi importanti rispetto alle tesi dell’Officina. Sgarbi, sulla linea di Volpe, sottolinea anche l’urgenza di una mostra sul “Rinascimento a Bologna” che recuperi il ruolo centrale di Niccolò dell’Arca, di cui in mostra viene riproposto il busto di San Domenico di proprietà della Fondazione Cavallini-Sgarbi, che, pur notevolissimo, lascia a mio parere qualche dubbio sull’attribuzione. E in quell’occasione sarà da riconsiderare appunto il ruolo altrettanto fondamentale di Antonio da Crevalcore, di cui ora sono esposte a Ferrara tre opere importanti, il grande trittico di San Paolo, la Madonna col Bambino e San Pietro, della collezione Memmo, la Sacra Famiglia ancora della Fondazione sgarbiana, la Deposizione della Pinacoteca ferrarese. Oggi, Antonio è un pittore studiato e oggetto di monografie, ma la prima fu di Sgarbi come, del resto, anche la sua scoperta come pittore.

Il numero notevolissimo di opere, spesso provenienti dall’estero, del de’ Roberti, una ventina o più (tra cui l’incredibile predella del Polittico Griffoni, opera giovanile ma già eloquente sui talenti dell’artista, dedicata ai Miracoli di san Vincenzo Ferrer); e l’altrettanto elevato numero di dipinti di Costa, oltre alle opere di Donatello e Mantegna, Tura, Bellini e Zoppo, Guido Mazzoni, lo splendido e melanconico Compianto di Maineri, e ancora: Cicognara, l’Ortolano, Niccolò Pisano, Perugino, Francia, ecco, questa rimpatriata ferrarese è un appuntamento da non perdere.

Sarà come fare un percorso dalla materia dura, arcaica, che man mano si stempera in forme di sensuale morbidezza e naturalezza, con languori e dolori, che rendono più evidente il ponte emiliano, pittura degli affetti, che unisce Ferrara a Bologna. Unica misteriosa stella vagante, quel Vicino da Ferrara che Longhi battezzò così pensandolo in affinità elettive con Ercole, la cui Crocifissione, proveniente da Parigi, è una grande tela che aspetta di essere decifrata nel suo autore eccellente.

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