venerdì 3 marzo 2023
Lo scrittore, scampato a un attentato, si ispira agli autori occidentali e ai poemi epici indiani per una storia del XVI secolo. E, come Manzoni, parte da un finto originale
Salman Rushdie fotografato prima dell’attentato in cui ha perso un occhio

Salman Rushdie fotografato prima dell’attentato in cui ha perso un occhio - C.Bundgaard/Ritzau Scanpix/Reuters

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Salman Rushdie è un romanziere di romanzi. Detta così, l’informazione rischia di risultare irrilevante. Che cosa mai dovrebbe scrivere un romanziere, infatti, se non romanzi? Quale alternativa potrebbe esserci al di fuori di questo genere che da un paio di secoli si è arrogato un ruolo eminente nella letteratura occidentale? Ecco, l’ultima indicazione già introduce un discreto grado di complessità. Perché non è sicuro che l’angloindiano Rushdie si trovi del tutto a suo agio nella definizione di scrittore occidentale. Nato a Mumbai nel 1945, affermatosi non ancora quarantenne con I figli della mezzanotte, sfoggia un inglese prodigioso, un po’ come facevano gli irlandesi all’epoca di Joyce. Ma così come Joyce non avrebbe mai voluto essere considerato un autore britannico, Rushdie continua a rivendicare il diritto a una posizione eccentrica rispetto a quella di qualsiasi altro collega europeo. La sua famiglia ideale di appartenenza è un’altra, comprende romanzieri che si servono di lingue in apparenza periferiche, come l’israeliano David Grossman o il turco Oran Pamuk (l’unico, fra i tre, già insignito del Nobel). Insomma, Rushdie scriverà anche in inglese, ma non è detto che sogni in inglese. Ed è di questo, in fondo, che i romanzi sono fatti: della sostanza dei sogni, più che di ogni altra sostanza. È stato così fin dagli inizi. I figli della mezzanotte mescolava la cronaca dell’indipendenza indiana con una leggenda di preveggenza e predestinazione, il fatale I versi satanici si prendeva con il Corano tutte le libertà che potrebbe prendersi un sognatore, La terra sotto i suoi piedi, Furia, Shalimar il clown e gli altri titoli succeditisi negli anni mescolavano spesso mitologie pop e narrazioni ancestrali. Perfino Joseph Anton, che una decina di anni pareva sconfinare nei territori dell’autobiografia o autofiction, non rinunciava alle seduzioni dell’invenzione, opportunamente celebrate nella recente riscrittura cervantina di Quichotte. Adesso, con La città della vittoria (tradotto a quattro mani da Stefano Mogni e Sara Pug-gioni per Mondadori; pagine 358, euro 22,00) siamo all’apoteosi dell’immaginazione come forza creatrice e salvifica. O al trionfo della parola, se si preferisce: una parola che per l’agnostico Rushdie è sacra di per sé, nella sua energia primordiale di rappresentazione e di evocazione. Conta la trama, si capisce, ma più ancora conta l’ordito di un’opera-mondo attraverso la quale Rusdhie si misura direttamente con l’altro vettore della sua esperienza letteraria. Da una parte c’è l’Occidente dei Conrad e dei Cechov (che sono il Joseph e l’Anton del già ricordato memoir), dall’altra sta l’Oriente del Mahabharata e del Ramayana, gli smisurati, lussureggianti poemi epici della tradizione indiana ai quali Rusdhie direttamente si ispira nel nuovo romanzo. Che è un romanzo al qualegano drato, dato che qui davvero si mette alla prova l’abilità suprema del narratore: produrre, in assenza di un documento autentico, un originale di invenzione, che abbia la stessa affidabilità dell’attestazione mancante. Si tratta di un espediente che il lettore italiano conosce bene, dato che a servirsene nei Promessi Sposi è lo stesso Alessandro Manzoni. Al posto del «dilavato e graffiato autografo» che malamente esporrebbe la cantafavola di Renzo e Lucia, nella Città della vittoria Rusdhie ci propone l’altrimenti indecifrabile Jayaparajaya di Pampa Kampana, fondatrice della leggendaria città di Vijyayanagara, oltre che cronista della sua ascesa e rovina. Ora, il punto è che l’impero di Vijyayanagara è effettivamente esistito. Ebbe effimera fioritura tra il XIV e il XVI secolo, nello stesso periodo in cui Rushdie ambienta il suo libro. Meno di due secoli e mezzo, che nella struttura del romanzo corrispondono all’età della stessa Pampa Kampana, la quale è invece creatura di fantasia. Dopo aver assistito, ancora bambina, all’immolazione della madre sulla pira destinata alle vedove, ottiene da una dea il dono di una semente magica, che le permette di suscitare dal nulla la famosa “città della vittoria” (è la traduzione letterale di Vijyayanagara, presto corrotta in Bisnaga) completa dei suoi primissimi abitanti. Da questo momento in poi è tutto un susseguirsi di improvvisate dinastie e di tradimenti a lungo meditati, di matrimoni combinati in ossequio alla ragion di Stato e di passioni travolgenti come quelle che la sempreverde Pampa Kampana agli stranieri di passaggio, sempre simili nell’aspetto nonostante il rincorrersi delle generazioni. Fosse per la protagonista del romanzo, Bisnaga sarebbe la capitale della giustizia e dell’uguaglianza, anche tra i sessi. Ma perfino la meravigliosa Pampa Kampana deve vedersela con le miserie della slealtà e della cospirazione. Conosce l’esilio (ma un esilio fatato, come si conviene all’eroina di un’epopea), subisce il supplizio dell’accecamento, ma in compenso ottiene la lucidità di uno sguardo interiore che le permette di emettere sentenze inappellabili sulle motivazioni, spesso oscure, che muovono gli esseri umani nelle loro scelte e nei loro comportamenti. Nella Città della vittoria vero e verosimile si intrecciano di continuo, a dispetto della manifesta inverosimiglianza di molte situazioni che trovano nell’inestinguibile gioventù di Pampa Kampana la loro sintesi e il loro emblema. Le generalità dei regnanti di Bisnaga rinviano a quelle tramandate dagli storiografi, ma fantomatiche risultano le loro peripezie, che trovano giustificazione solo nell’assoluta fiducia che la poetessa cieca nutre nella capacità generatrice della parola. «Ho vissuto per veder sorgere e cadere un impero – canta negli ultimi versi del suo capolavoro –. Come sono ricordati ora, quei re, quelle regine? Ora esistono solo nelle parole. […] Le parole sono le uniche vincitrici». Finora non lo abbiamo detto apertamente, ma il romanziere Salman Rushdie è lo stesso uomo che fu condannato a morte nel 1989 dal regime degli ayatollah e che il 12 agosto dello scorso anno è stato accoltellato da un fanatico a New York. Si sta riprendendo lentamente, molto lentamente, ed è probabile che non vedrà più da un occhio. La vita di un autore non coincide con la sua opera, lo sappiamo. A volte però l’una aiuta a comprendere l’altra. O viceversa, se mai un viceversa esistesse.

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