mercoledì 20 aprile 2022
La storica Monica Galfré mette in fila tutti i misteri (irrisolti) sulla vicenda del figlio del politico Dc, dal terrorismo alla riabilitazione fino all’assurda morte
Marco Donat-Cattin a processo, nel 1983 a Torino

Marco Donat-Cattin a processo, nel 1983 a Torino - archivio

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Una tragedia familiare che mostrò i risvolti umani più laceranti del cosiddetto attacco al cuore dello Stato. Anche se voi vi ritenete assolti, siete lo stesso coinvolti, , cantava Fabrizio De Andrè, nel 1973 descrivendo l’illusione piccolo borghese di poter restare indenni dal fumo della rivolta seguita al Maggio francese. Ma l’esplosione del caso di Marco Donat-Cattin - la scoperta del figlio terrorista di un politico di primo piano della Dc - e lo choc collettivo che comportò, invece di costituire l’occasione per fare i conti con quel contrasto politicogenerazionale segnò, all’inizio degli anni Ottanta, l’esplosione di veleni e rese dei conti fra e nei partiti. Con Il figlio terrorista. Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione, Einaudi (pagine 276, euro 18,50) la storica fiorentina Monica Galfré mette in fila tutti i misteri (irrisolti) del caso, intrecciandoli con i moti dell’animo e il dramma di una famiglia, accanto a quelli di un’intera classe dirigente che si dibatte, come era accaduto nel caso Moro due anni prima, nel dilemma fra ragion di Stato e umana compassione. Si parla stavolta di Prima linea, seconda sigla degli anni di piombo, prima per numero di militanti e fiancheggiatori. Lotta continua aveva deciso a metà anni ’70 di abbandonare la via rivoluzionaria, aderendo a un cartello di sigle di estrema sinistra insieme al Partito di Unità Proletaria per il Comunismo, che si presentò alle elezioni politiche del 1976, con scarso successo. Il processo fu segnato però da lacerazioni che videro scivolare verso la lotta armata diverse sezioni locali e un nutrito numero di ex militanti di Lc. Marco Donat- Cattin fra questi, divenne un esponente di punta di Prima Linea a Torino. Proprio a Torino, nel maggio 1980, le rivelazioni del pentito Patrizio Peci segnano il primo cedimento nel fortino che sembrava inespugnabile dell’eversione di sinistra. Fra i nomi spunta anche quello di Marco Donat-Cattin. Il padre Carlo, sanguigno leader di Forze nuove, corrente politico sindacale della Dc, è uno dei protagonisti di questo dramma umano e politico. Suo figlio risulta coinvolto fra l’altro nell’omicidio del magistrato Emilio Alessandrini. Il presidente del Consiglio Francesco Cossiga viene accusato di aver trasferito a Donat-Cattin infor- mazioni riservatissime sulla situazione del figlio. A rivelarlo il pentito Roberto Sandalo, ma il suo racconto, ritenuto poco attendibile, lascia irrisolto il dilemma cruciale: quel colloquio fu solo un imperdonabile, sebbene forse umanamente comprensibile, moto dell’animo del capo del governo volto ad anticipare all’amico di partito, da padre di famiglia, lo tsunami che stava per abbattersi su di lui, o conteneva anche la pianificazione di un piano per sottrarre il giovane all’arresto imminente? Il verbale Peci in realtà circolava già. Furono arrestati per questo il giornalista del Messaggero Fabio Isman e il numero due del Sisde Silvano Russomanno. E oggi possiamo dire che, con tutta probabilità, non fu quell’imbarazzante rivelazione di segreti giudiziari a favorire la fuga all’estero di Marco Donat-Cattin. Ma due anni dopo Moro, sul ministro dell’Interno che aveva gestito la linea della fermezza e aveva nel frattempo imbiancato i capelli, cadde l’accusa di aver invece 'trattato' da presidente del Consiglio con l’amico di partito che aveva il figlio coinvolto nella lotta armata. Cossiga la scampa in qualche modo: prima il Tribunale dei ministri poi il Parlamento in seduta comune lo scagionano, con un sofferto voto a maggioranza, dall’accusa di favoreggiamento e rivelazione di segreto, e il cerino resta in mano al vicesegretario della Dc. Uscito di scena Moro la stagione della solidarietà nazionale era ormai archiviata, e Donat-Cattin paga anche, inconfessabilmente, per esser stato il materiale estensore del 'preambolo' che aveva vincolato la Dc a chiudere la collaborazione con il Pci. «Cercavano i terroristi fra i nipoti di Carlo Marx, ne trovano uno tra i figli di Donat-Cattin», è il commento caustico del comu- nista Giancarlo Pajetta. Lui lascia alla fine l’incarico, per liberare la Dc dagli imbarazzi. Il 18 novembre 1980, a Parigi, dove suo figlio Marco si è rifugiato, gli uomini del generale Dalla Chiesa piombano su di lui e dopo un lungo interrogatorio smontano la falsa identità dei documenti. Il resto della storia è il racconto di vicende umane in cui la politica ormai c’entra poco: il cammino tortuoso di dissociazione e progressive ammissioni del figlio, le visite al carcere del padre e della madre, in cui però il primo - ferito e deluso - preferisce restare fuori ad aspettare. Alla fine diventa una storia di recupero, «in cui la Chiesa e le madri giocano un ruolo decisivo». Ma non a lieto fine. Marco inizia un percorso con la comunità Exodus di don Antonio Mazzi, che gli consente di uscire come tanti - non come 'figlio di' - grazie alla legge Gozzini, usufruenendo delle misure alternative al carcere. Anche il padre è potuto tornare sulla scena politica. Ma la ferita resta. Rivelatore un episodio del 1987. In una domenica di febbraio, invece di rientrare in carcere come avrebbe dovuto, Marco si reca nella sede milanese di Exodus. Lì c’è suo padre, ministro della Sanità nel secondo governo Craxi, per un incontro sull’Aids. La sorpresa non è gradita: «Ma ce l’hai il permesso per venire qui?», gela il figlio. L’epilogo si consuma di domenica notte, il 20 giugno 1988, sull’autostrada Serenissima, nei pressi di Verona. Marco è direttoa Roma, dove da un po’ aiuta il fratello Paolo, impresario teatrale del 'Giulio Cesare'. Coinvolto in un incidente a catena, ne esce indenne, ma nella carreggiata c’è un’altra vettura coinvolta, una donna chiede aiuto e lui si ferma, si sbraccia con lei a segnalare il pericolo. La visibilità è scarsa, Marco viene travolto insieme alla donna da una Thema che sopraggiunge veloce e muore sul colpo. «Un ragazzo sregolato, nel bene come nel male lo descrive don Mazzi -, che si buttava nelle cose a capofitto. Capisco la pazzia che ha fatto sull’autostrada, nel tentativo di salvare altre persone. Da noi, al centro di recupero dei tossicodipendenti, dava tutte le sue forze, con entusiasmo. E aveva quel carisma del capo, un po’ guascone, come suo padre peraltro». L’ex terrorista bollato come 'raccomandato' muore di generosità. E si riscopre simile al padre, come una sorta di riconciliazione postuma.

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