lunedì 6 novembre 2023
Un libro della giornalista Swarns documenta come nel 1838 per finanziarsi l’università cattolica americana vendette 272 afroamericani in qualità di schiavi alle piantagioni di cotone della Louisiana
In basso a sinistra, una donna che gli storici ritengono essere Louisa Mahoney

In basso a sinistra, una donna che gli storici ritengono essere Louisa Mahoney - Georgetown University Library

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Il sacrificio della famiglia Mahoney si consumò in un cupo giorno d’autunno del 1838. Al molo della città di Alexandria, in Virginia, centinaia di persone furono caricate con la forza sull’enorme nave di schiavi Katherine Jackson diretta a New Orleans, nel profondo sud. Uomini e donne di tutte le età allontanati dai loro cari e venduti come oggetti, tra le grida dei bambini strappati dalle braccia delle loro madri. Anny Mahoney vide il suo mondo andare in pezzi per sempre, la sorella e i due figli, Arnold Jr. e Louisa, destinati alle lontane piantagioni di cotone della Louisiana. Per anni lei e suo marito avevano servito fedelmente uno degli uomini più ricchi del Maryland, Charles Calvert, e in cambio avevano ottenuto la promessa che la loro famiglia non sarebbe mai stata divisa. Ma poi la situazione economica aveva imposto altre scelte e il loro destino fu segnato. Quel giorno di due secoli fa, la tragedia familiare di Anny Mahoney avrebbe incrociato la grande storia degli Stati Uniti, come si apprende in The 272: The Families Who Were Enslaved and Sold to Build the American Catholic Church, un libro in cui la giornalista del “New York Times” Rachel L. Swarns alimenta il dibattito in corso da anni sul coinvolgimento della Chiesa cattolica statunitense in quell’epoca oscura e dolorosa.

Swarns lo fa indagando a fondo la storia del clan Mahoney e ricostruendo il terribile destino dei duecentosettantadue schiavi ceduti ai nuovi padroni della Louisiana nel 1838 per finanziare la Georgetown University di Washington. Famiglie intere che vennero sradicate e divise ricevendo in cambio 115mila dollari (equivalenti a circa quattro milioni di dollari di oggi). «Circa 422 dollari a persona, da pagarsi a rate», chiosa Swarns. La vicenda, nota ormai da qualche anno, ha già spinto il più antico e prestigioso ateneo cattolico degli Stati Uniti a fare mea culpa impegnandosi a istituire un fondo per i discendenti di quegli uomini, donne e bambini tenuti in schiavitù all’inizio dell’Ottocento.

Da decenni gli storici stanno indagando sul ruolo della Chiesa cattolica nella tratta degli schiavi. Ma finora soltanto di rado questi studi erano usciti al di fuori del mondo accademico. Quella vicenda risalente al 1838 emerse per la prima volta nel gennaio 2015 sulle pagine di “Hoya”, il giornale studentesco di Georgetown. Suscitò profonda indignazione e indusse la direzione dell’ateneo a istituire un gruppo di lavoro per studiare i legami dell’università con la schiavitù. Ma ad aprire definitivamente il vaso di Pandora contribuì soprattutto un’inchiesta uscita l’anno dopo sul “New York Times”, a firma della stessa Rachel L. Swarns. Un lavoro accurato in cui l’autrice – una afroamericana cattolica con all’attivo altri libri sulla schiavitù – dimostrò come nel 1838 la Georgetown University riuscì a salvarsi dal tracollo finanziario soltanto attraverso quella vendita di esseri umani ai proprietari terrieri della Louisiana, al tempo considerati i peggiori sfruttatori di manodopera degli schiavi neri.

Per trasformare quell’inchiesta in un libro potente e commovente Swarns ha scandagliato gli archivi dei gesuiti in Europa e negli Stati Uniti, gli archivi di Stato del Maryland e il Georgetown Slavery Archive. Senza curarsi degli storici che hanno screditato le storie orali dei neri ritenendole poco attendibili, è andata poi a cercare i discendenti di quegli schiavi per raccogliere le loro strazianti memorie familiari. «Il mio lavoro non vuole essere un atto d’accusa indiscriminato – spiega – bensì il tentativo di alimentare una presa di coscienza collettiva sottolineando anche le numerose voci contrarie che si levarono all’epoca e fecero tutto il possibile per cercare di proteggere le persone schiavizzate. Nel XIX secolo la pratica della schiavitù era ampiamente accettata in buona parte degli Stati Uniti e coinvolse tante istituzioni, tra cui anche le Chiese protestanti, perché era ritenuta fondamentale per l’economia».

Eppure non furono pochi i preti cattolici che vi si opposero apertamente, riconoscendo che lo schiavismo era del tutto contrario alla missione della Chiesa e si batterono per migliorare le condizioni di vita degli schiavi. Patrick Smyth, un prete irlandese che visse a lungo nel Maryland, si scagliò contro i suoi confratelli che gestivano le piantagioni per lo sfruttamento degli schiavi. «I vostri stessi ministri sono diventati dei sorveglianti? – scrisse in un opuscolo al suo ritorno in Europa – Proprio loro che dovrebbero amare con tutto il cuore gli sfortunati africani e condividere il triste fardello delle loro afflizioni?». Secondo la dettagliata ricostruzione di Swarns uno dei più ferventi oppositori dello schiavismo fu padre Joseph Carbery, che a più riprese sfidò apertamente i propri superiori e cercò di mettere in salvo i membri della famiglia Mahoney, riuscendoci con la piccola Louisa. Il ruolo dei cattivi, in questa storia, lo giocano invece Thomas Mulledy e William McSherry, i due presidenti dell’università di Georgetown che vollero concludere quella vendita a tutti i costi, incuranti persino degli ordini contrari che arrivarono dalle gerarchie romane.

Incrociando la narrativa storica e il giornalismo investigativo il libro di Swarns rivela poi anche una conseguenza sorprendente di quella vicenda. «Quanto accadde nel 1838 non bastò per scalfire la fede dei discendenti di quegli schiavi i quali, nonostante tutto, non si sono sentiti traditi dalla Chiesa perché si sono resi conto che uomini come Mulledy e McSherry non la rappresentavano. Alcuni di essi, dopo la guerra civile americana sarebbero diventati persino dei leader religiosi».

Il dibattito sul passato schiavista delle istituzioni universitarie statunitensi ha coinvolto in anni recenti molti atenei prestigiosi, tra cui Harvard, Brown, Yale e Virginia, che dopo aver aperto i loro archivi hanno scoperto di aver svolto un ruolo tutt’altro che secondario nella tratta degli schiavi e hanno cercato poi di fare pubblica ammenda. Swarns sottolinea però che sono stati i gesuiti dell’università di Georgetown a compiere finora lo sforzo più consistente per fare i conti con quel passato doloroso. «Il lavoro del Georgetown Memory Project ha consentito di individuare oltre seimila discendenti ancora in vita di quei 272 schiavi e l’ateneo di Washington ha istituito un fondo di 400mila dollari l’anno per pagare l’assistenza sanitaria a quelli più bisognosi. Inoltre hanno fondato un nuovo istituto per gli studi sullo schiavismo e hanno rimosso prontamente i nomi di Mulledy e McSherry dagli edifici universitari a loro intitolati».

L’assunzione di responsabilità ha coinvolto in prima persona anche i vertici della Compagnia di Gesù degli Stati Uniti e del Canada, che due anni fa si è impegnata a raccogliere cento milioni di dollari per finanziare borse di studio e programmi culturali per smantellare l’eredità schiavista e contrastare il razzismo di cui è ancora oggi permeata la società americana.

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