venerdì 23 luglio 2021
Mentre la capitale Kiev cerca di darsi un tono internazionale, anche adottando uno sfrenato neoliberismo, il passato resta custodito a Chernobyl e a Babij Jar
Palazzi di nuova costruzione nella periferia di Kiev

Palazzi di nuova costruzione nella periferia di Kiev - Maurizio Fantoni Minnella

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A coloro che, nell’ambito del Molodist International Film Festival di Kiev, tra i più importanti dell’Est Europa in cui sono membro della giuria internazionale, mi chiedono se è la prima volta che mi trovo in Ucraina, rispondo che era avvenuto nel 1987, in piena era gorbacioviana. Alcuni mi guardano come se parlassi di un’epoca remota, facendo seguire, con sguardo compiaciuto, la solita frase: quella che lei sta vedendo è un’altra città che in quasi nulla, per fortuna, ricorda quella vecchia. Già, la Kiev sovietica dei grigi palazzi ministeriali, dell’architettura tardo staliniana che fa imperiosamente da sfondo a ben due lati di piazza Majdan – che non solo è il centro cittadino più mondano ma anche il luogo dove, nel novembre del 2004, si consumò la cosiddetta Rivoluzione Arancione, cui era seguita quella del 2014, in gran parte tradita nelle sue speranze di reale cambiamento –, delle lunghe stecche di casermoni popolari, ma anche dei grandi parchi silenziosi, delle sale da concerto e dei teatri (al glorioso teatro d’Opera e Balletto Taras Ševcenko vidi una rappresentazione del Boris Godunov di Modest Musorgskij nella sua versione originale), che oggi, pur conservando il prestigio delle proprie istituzioni culturali, presenta un volto caotico. Lo si vede, infatti, sia nel gran numero di automobili anche di lusso dilaganti in ogni angolo della città e nei suoi lunghi, lunghissimi viali, in interminabili code, che in un’espansione edilizia del tutto selvaggia, concentrata nel vasto e dilatato centro urbano e nelle immediate periferie dove si innalzano a perdita d’occhio, con incalzante prosopopea, alte e dense foreste di cemento, ecomostri edilizi di alta densità abitativa, talvolta originati da una progettualità ambiziosa, mutante, che pretenderebbe di lasciare un segno forte nel paesaggio, anzi, di condizionarne fortemente la totalità, tuttavia improbabili rispetto ai parametri di un’abitabilità sostenibile. Sorta su sette colli, come Roma, nell’882 d.C., ancora oggi dominati dalle moli sontuose delle più importanti basiliche e chiese ortodosse della città: dalla grandiosa e millenaria di Santa Sofia con le sue cinque cupole che determinarono un vero e proprio modello architettonico e in cui si custodisce una delle più alte testimonianze della tradizione religiosa ortodossa russa e ucraina, con il monastero di San Michele dalla cupola dorata, alla splendida chiesa di Sant’Andrea, progettata tra il 1747 e il 1753 dall’italiano Bartolomeo Rastrelli e dal russo Ivan Fedorovic Micurin, sublime nel perfetto equilibrio dei volumi e nel raffinato contrasto tra il bianco delle colonne e delle lesene e l’azzurro delle altre superfici, che si erge solitaria in cima alla romantica salita (Andriyivs’kyi uzviz), dove sempre più visitatori si emozionano nello scoprire, improvvisamente, che qui aveva abitato il grande scrittore Michail Bulgakov, e che collega l’antico quartiere di Podil con la città alta, divenne durante il regno del principe Vladimir il Grande e poi con il figlio Jaroslav il Saggio, capitale della cosiddetta Rus’ di Kiev e fiorente centro mercantile fluviale. Oggi la città, fiera della propria indipendenza di Stato sovrano e dunque della propria lingua, l’ucraino, alimentata da un forte ri/sentimento anti russo e antisovietico, corroborato dal ricordo della carestia (Holodomor) del 1932-1933, durante il periodo staliniano, è diventata negli ultimi decenni la vetrina appariscente di uno Stato avviato verso una sorta di neo-liberalismo selvaggio che, in realtà, nasconde nelle campagne e nei piccoli centri di provincia di un territorio molto vasto, sacche di miseria per non dire di indigenza. Per trovare, infatti, una statua superstite del periodo sovietico (tutte quante rimosse o abbattute e spesso sostituite da quelle del poeta nazionale Taras Ševcenko), ci si deve spingere fino a Chernobyl (Chornobyl, nella dizione ucraina), dove all’ingresso di una vasta area boschiva che ospita un vecchio e impressionante radar con cui i sovietici spiavano le trasmissioni radio occidentali, ci si imbatte, curiosamente, in un busto di Lenin posto sopra un cartiglio di date storiche che vanno dal 1928 al 1968!

La ruota abbandonata a Pryp”jat’

La ruota abbandonata a Pryp”jat’ - Maurizio Fantoni Minnella

Passeggiare lungo i sentieri erbosi e i viali di cemento residuali della città fantasma di Pryp”jat’, abbandonata dopo la catastrofe nucleare e successivamente saccheggiata fino a diventare un cumulo di rovine nel mezzo della boscaglia, è come immergersi in una sorta di Angkor dell’età sovietica moderna, città morta priva di tracce artistiche, ma densa dei segni ancora tangibili (gli oggetti quotidiani che da soli suggeriscono un’atmosfera allucinata e la leggendaria ruota da luna park che fa da contraltare fantasmatico a quella presente nel centro di Kiev). Quando si parla di lingua ucraina come strumento d’indipendenza nazionale e di lotta culturale contro il vicino russo che preme sui confini facendo leva sulla minoranza russa che vive nelle regioni sudorientali del Donbass, per ragioni che ormai sono fin troppo chiare, non si dimentichi che grandi ucraini come Nikolaj Gogol’, Michail Bulgakov e Isaak Babel’ scrivevano in lingua russa i propri capolavori. Nei luoghi della cultura, invece, con gran merito dell’Istituto italiano di cultura, si celebra il centenario della nascita di Federico Fellini con una grande mostra all’interno del Museo del Cinema dedicato a un altro grande ucraino, il regista Aleksandr Dovženko, dove si proietta il cortometraggio d’animazione che Francesca Fabbri Fellini ha voluto dedicare allo zio. Comunica al folto pubblico presente il forte legame con il grande regista e la natura gentile di questo suo omaggio, mentre al Molodist International Film Festival si proietta Rossellinis, l’opera prima di un altro italiano, Alessandro Rossellini, figlio di Renzo e nipote di Roberto, che si aggira curioso per la città, in attesa di conoscere il verdetto del Festival. Mi ero, infine, riproposto di non lasciare l’Ucraina senza visitare il sito di Babij Jar, così come era accaduto a Beirut alcuni anni prima, con il campo profughi palestinese di Sabra e Shatila. Dove un secolo fa si trovavano soltanto distese boschive, ora la città metropolitana si è espansa, e così il luogo della Memoria di Babij Jar è diventato come una piccola oasi silenziosa, che prima di trasformarsi in un immenso parco ben curato, si presenta nella forma ordinata di un viale della memoria il cui passaggio che fiancheggia alcune tombe di vittime dell’antisemitismo culminato nel massacro nazista avvenuto tra il 29 e il 31 settembre del 1941, è accompagnato da salmodie ebraiche e voci quasi sussurrate, provenienti da piccoli altoparlanti, che recitano i nomi delle vittime. Man mano che ci si avvicina all’epicentro del memoriale, ossia al grande spiazzo dove si erge su un basamento di pietra il simbolo ebraico della menorah (il classico candelabro a sette bracci), si avverte sempre più la presenza del bosco, della foresta che inghiottì in poco tempo 33.000 esseri umani. Infatti, poco lontano, all’interno della boscaglia, ecco spalancarsi il burrone da cui furono gettati i corpi ormai senza vita. Seppi per la prima volta di Babij Jar ascoltando la Sinfonia n.13 in Si bemolle minore op. 113 (1962) del grande compositore russo Dmitrij Šostakovic, dedicata appunto alla strage e di cui conservo gelosamente la prima incisione mondiale su vinile. Molti anni più tardi, conversando con il poeta Evgenij Evtušenko, di origine ucraina, in un ristorante genovese durante il Festival Internazionale di Poesia, raccolsi lo stupore del poeta nel constatare che qualcuno si ricordasse ancora di quell’opera così dolente. Altre due testimonianze letterarie ci avvicinano alla tragedia atomica e a quella del popolo ebraico, facendoci partecipare al dolore delle vittime: quella della bielorussa Svetlana Aleksievic con il suo Preghiera per Chernobyl (2005) e del russo Anatolij Kuznecov autore di uno struggente romanzo documento Babij Jar (1970) ma giunto a noi clamorosamente tardi, a riprova del fatto che non importa in quale lingua si scriva del dolore o della felicità degli esseri umani, al di là di qualsivoglia tentazione nazionalistica o imperialista. È tardi ormai, per raggiungere l’altra riva del grande fiume Dnepr dove dietro una lunga striscia di sabbia, come in lontano luogo esotico, si estende una foresta urbana. Mi accontento di ammirarne la linea dolce dal ponte panoramico di acciaio, teso come un’architettura futurista, sognando di potere un giorno raggiungerla e confondermi con essa.

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