mercoledì 20 aprile 2011
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Dallo sport sporco, alla raccolta diffe­renziata dei rifiuti. Si potrebbe sin­tetizzare così la parabola sportiva e umana di Giuliana Salce, un passato da stel­la della marcia degli anni ’80, poi finita let­teralmente alle “stalle”. A un passo dall’a­bisso, per colpa del doping. Rifiutata da tut­ti e per anni senza uno straccio di lavoro per poter sopravvivere e crescere un figlio adolescente, Barnaba, «adesso ha 21 anni e fa il pugile». Finalmente una mano gli è ar­rivata dall’Ama Roma, l’Azienda munici­pale dell’ambiente della Capitale, dove la­vora tre volte alla settimana. «Faccio il tur­no dalle 5.30 alle 11.30, guido un mezzo per la raccolta dei rifiuti organici, da via Vetu­ria a piazza Santa Maria Ausiliatrice». Ha ri­cominciato dalla strada e dall’asfalto su cui ha vinto in tutte le distanze della marcia. Un titolo iridato indoor sui 3 chilometri a Parigi nel 1985 e argento a Indianapolis nell’87. L’anno dello “scandalo Salce”. Una sera di quel dicembre Giuliana nella sua ca­sa di Ostia redige un documento contro la Fidal (Federazione italiana atletica legge­ra), sottoscritto e firmato da un gruppo di 7 atleti “dissidenti”. Si era firmata la sua con­danna. Ma che cosa c’era in quel documento di co­sì deleterio per il suo futuro di atleta? Innanzitutto non era solo il mio documen­to. Con me firmarono alcuni di quei ragaz­zi che erano il meglio dell’atletica italiana di allora: Stefano Tilli, Gianni Di Napoli, Ste­fano Mei, Gianni Stecchi. Il contenuto era molto semplice: ci dissociavamo dalla Fidal per qualsiasi tipo di illecito sportivo che se­condo noi si stava verificando, e soprattut­to per la sempre più diffusa pratica dell’au­toemotrasfusione e delle sostanze dopanti che sapevamo stavano circolando anche nell’atletica. Circolavano o le consumavate anche voi? In quel periodo il mio doping erano gli al­lenamenti durissimi, al limite della sop­portazione umana. I carichi li stabiliva il mio allenatore, che tra l’altro è il mio ex ma­rito. Mi diceva sempre: “Giuliana, tu devi essere una macchina da guerra”. Nono­stante una mia forma patologica di ano­ressia e bulimia insieme, all’epoca non prendevo nessun tipo di sostanza. Torniamo al documento, che fine fece? Cestinato, anche perché gli altri si sono su­bito dissociati. Tilli e Mei davanti alla Fede­razione confermarono di averlo firmato, ma accettavano di continuare a gareggiare per la Nazionale. Invece la sottoscritta, la don­na su cui la Fidal puntava di più, visti i ri­sultati che portava a casa, era stata emargi­nata. Tre settimane dopo, andai a vedere u­na corsa campestre dove c’erano colleghi, dirigenti e giornalisti che sapevano benis­simo chi fosse Giuliana Salce, l’avevano o­sannata fino al giorno prima; nessuno di lo­ro mi salutò, ero diventata un’ombra... La Federazione l’aveva fatta fuori, ma nes­suno poteva dire niente, anche perché lei aveva ormai 32 anni, quindi a fine carrie­ra. Provarono a dire che ero finita, ma in realtà le due ultime gare le feci proprio quel set­tembre dell’87. In 48 ore avevo stabilito un record del mondo sulle due miglia a Bus­solengo e conquistato un record europeo sui 3.000. Il problema vero è che avevo par­lato e osato sfidare il sistema, e questo poi ho capito che non si fa. Guai soprattutto a parlare di doping nell’atletica leggera. Dopo aver chiuso con l’atletica, per lei nel ’99 si aprirono le porte del ciclismo. Avevo voglia di rientrare nello sport agoni­stico, anche se si trattava di ciclismo ama­toriale. Dopo due giorni di prove ero già sta­ta tesserata da una squadra, la Progetto Sud.Nel 2000 ho vinto un titolo italiano in mon­tagna e a cronometro. Ero ancora pulita, poi l’anno dopo ho cominciato a prendere di tutto... Si spieghi meglio, che intende con quel “prendere di tutto”? Sono partita dagli integratori per arrivare a farmi di Gh ed Epo. Tutta roba che mi for­niva, gratis, un consigliere della Federcicli­smo, Maurizio Camerini (finito agli arresti domiciliari dopo l’inchiesta “Oil for Drug”). Un ciclo continuato di 4 mesi da maggio ad agosto 2001. Uno stillicidio. Addirittura dei dirigenti le fornivano le so­stanze? Quello stesso consigliere federale mi aveva perfino stilato la ricetta in codice. Con “al­lenamento lungo” voleva dire un giorno di Gh. Con “ripetuto” si sottintendeva som­ministrazione di Epo per il giorno dopo. Io mi rinchiudevo in bagno da sola e mi iniet­tavo le dosi come una perfetta drogata. Più che una vita da atleta, sembra la trama di una donna sull’orlo della follia. Infatti ero caduta in una ter­ribile depressione e un gior­no, se il mio compagno Da­nilo non mi fosse stato ac­canto, forse oggi non potrei raccontarla questa storia, perché ero arrivata davvero ad un passo dal farla finita. Depressione come effetto collaterale della dipenden­za da doping? Quando ti fai di doping, di sicuro la tua testa non è più la stessa. Muscoli e presta­zioni migliorano, come atle­ta ti guardi allo specchio e ti piaci fisicamente, ma poi non dormi più la notte, sei nervosa, vai in pazzia. E a un certo punto come donna e madre cominci a farti schifo. Quando ha deciso che era arrivato il momento di dire “basta, adesso dico tutto”? Il giorno in cui è morto Mar­co Pantani. Pur non aven­dolo mai incontrato, mi so­no sentita morire anche io. In quel suo sguardo pieno di malinconia ho visto riflessi i miei occhi. Come me era sta­to usato e sfruttato fino in fondo, per poi venire rifiutato, senza pietà. Era tempo di denunciare ai Nas. A suo figlio ha spiegato come sono andate le cose? A Barnaba ho raccontato tutto sei anni fa. Lì per lì è rimasto interdetto. Poi, quando gli ho chiesto se era d’accordo che denun­ciassi pubblicamente la mia vicenda, lui mi ha incoraggiato dicendomi: va be­ne, mamma, se pensi che sia giusto de­vi farlo. È stata una scelta che rifarebbe quella di esporsi in prima persona? Se guardo alle conseguenze, maga­ri mi dico, ma chi me l’ha fatto fare? Ho subito minacce fisiche, mi hanno cancellata come sportiva, la Federazione mi ha chiuso tutte le porte. Fino a luglio del­l’anno scorso ero disoccupata. Però penso anche non sia giusto come si comportano tanti professionisti dello sport, che sanno e accettano in silenzio, per anni. L’omertà dunque alimenta il doping nello sport? Sicuro. Il no al doping è l’altra faccia della lotta alla tossicodipendenza. Bisogna infor­mare ed educare, soprattutto i giovani. So­lo così si può sperare di salvarne almeno qualcuno. Il problema è che ancora molti genitori non ci credono a quanto possa far male usare quelle sostanze, e ti ripetono fra­si sentite da certi medici sportivi o allena­tori scellerati che li hanno convinti con for­mule tipo: “Ma guardi che sua figlia è ane­mica e quella roba lì non può che guarirla”… Mentono spudoratamente. Qual è oggi la sua verità e cosa si aspetta dal futuro? La mia esperienza l’ho messa tutta in un li­bro, Dalla vita in giù (Bradipolibri, ndr). Lì dentro ci sono tutte le violenze subite fin da bambina, gli errori commessi, ma anche i nomi e cognomi di chi in questi anni ha veramente assassinato lo sport. È una sto­ria che vorrei tanto leggessero i giovani, quei ragazzini come la mia Cindy, la ragazza che alleno da un mese. Se sono tornata ad a­mare la vita e a credere in uno sport pulito, devo dire grazie anche a lei, alla mia picco­la Cindy.
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