sabato 3 luglio 2021
Parla l'autore del "Vichingo nero", che in “La fonte della vita” rivive l'isola del XVIII secolo: «Qui l’Occidente illuminista si scontra coi suoi schemi e capisce che non è padrone della natura»
Lo scrittore islandese Bergsveinn Birgisson

Lo scrittore islandese Bergsveinn Birgisson

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Appassionato studioso della cultura norrena, per noi remota quanto affascinante, Bergsveinn Birgisson, nato nel 1971 a Reykjavik ma residente in Norvegia, molto apprezzato in patria come scrittore, ha colto un vasto successo internazionale con la poderosa epopea Il Vichingo Nero – pubblicato in Italia da Iperborea nel 2019 – che presto diventerà una serie televisiva Paramount. Anche il suo nuovo romanzo La fonte della vita (Iperborea, pagine 317, euro 18) si svolge in Islanda, la mitica Ultima Thule, vagheggiata dall’immaginario collettivo come un altrove inaccessibile e fatale.

Protagonista del romanzo, ambientato nel XVIII secolo, è un giovane aristocratico danese, Magnus Arelius, inviato dal suo governo in Islanda, colonia devastata da eruzioni vulcaniche, carestia e vaiolo, per valutare l’opportunità di deportare tutta la popolazione valida trasferendola in Danimarca come mano d’opera a buon mercato. Imbevuto della cultura illuministica del tempo, Magnus Arelius si sente investito di una missione civilizzatrice e affronta il lungo disagevole viaggio attraverso territori inospitali e gente primitiva con molti preconcetti che via via dovrà modificare, per poter sopravvivere.

Nella cultura norrena, che comprende vari popoli, il ruolo dell’Islanda è particolare: «Si potrebbe dire che l’Islanda, così come la Norvegia occidentale, custodisce gli ingredienti dominanti nella cosiddetta tradizione norrena occidentale antica. Ciò è dovuto al fatto che l’Islanda è stata principalmente colonizzata dai norvegesi nel IX secolo. Tuttavia, quando la Norvegia fu conquistata dai danesi e perse l’indipendenza, nel Medioevo l’Islanda divenne una colonia danese insieme alla Norvegia. Forse è una cosa strana da dire, ma tra i danesi sento di essere uno straniero, ma non quando sono tra le persone in Norvegia occidentale. Credo sia coinvolto qualcosa di ancestrale, forse una memoria del Dna».

Come per il Vichingo nero, anche La fonte della vita ha una base storica.

«Stavo lavorando a un libro-progetto storico relativo al diciassettesimo e diciottesimo secolo, quando questa storia ha cominciato a svilupparsi come un’idea collaterale. Sì, c’è una base storica per quasi tutto nel romanzo, a eccezione della deportazione controfattuale alla fine: mi sono basato su documenti autentici trovati durante le mie ricerche. Ad esempio c’è la lettera di un funzionario islandese, Skúli Magnússon, scritta in risposta alle autorità danesi, in cui dichiara che la nazione islandese si estinguerà se deporteranno fino a 20 mila lavoratori. Ho anche trovato una risoluzione reale del 1785, in cui il re danese si riferisce all’idea della deportazione del popolo e suggerisce che sarebbe meglio aspettare. Infatti le eruzioni vulcaniche nel frattempo erano terminate».

Il personaggio di Magnus Arelius è un giovane raffinato e cagionevole di salute che si trova in lande estreme tra gente intrisa di superstizione e che vive in simbiosi con le anime degli annegati. Una serie di eventi lo porteranno, anche attraverso l’amore, ad aprire il cuore e la mente.

«Magnus Aurelius non è un personaggio storico, ma ha le caratteristiche di una serie di personaggi di cultura illuminista che visitarono l’Islanda nel XVIII secolo, per disegnare mappe del paese o per compilare rapporti sulle risorse naturali che aveva da offrire. Quindi mi piace definirlo un personaggio storico, anche se non è realmente esistito. Direi che le fasi principali del suo cambiamento sono quelle in cui capisce che, anche se ha la scienza e la “verità” dalla sua parte, è imprigionato da un sistema che lo isola dalle altre dimensioni della vita. Nella mente umana le categorie di verità e finzione tendono a sovrapporsi, come quando nella nebbia una vetta rocciosa sembra un troll».

La fiducia nella scienza professata da Magnus Arelius lo porta a grossolani errori, come quando considera ossa di giganti quelle che i rozzi nativi sanno benissimo appartenere a una balena.

«Io apprezzo gli scienziati umili, quelli che dicono: in pratica non sappiamo nulla del cervello. Oppure, in merito al virus, affermano: è sia vivo che non vivente, quindi non possiamo davvero capire cosa è! La scienza è importante, ma non la versione che vediamo nell’Illuminismo, quando veniva negato tutto ciò che non rientrava nel modello appena creato e tanto acclamato. Possiamo chiamarla la versione coloniale della scienza. A mio modo di vedere mancano la necessaria umiltà e la dinamica con la natura che la scienza futura dovrà avere. Ovviamente la scienza è una cosa positiva e dovremmo ascoltarla, per esempio quando si tratta di cambiamento climatico, ma in quel caso non lo facciamo!».

Lei definisce la natura islandese “inospitale”, ma non crede che abbia influenzato la cultura e le tradizioni degli abitanti.

«Non sono sicuro di credere nella teoria del clima di Montesquieu, secondo la quale il clima e la natura influenzano gli esseri umani e le loro società. Per me la questione principale è il contatto con la natura, ovvero essere in grado di percepire se stessi come una minuscola parte di qualcosa di immenso, e lasciarsi guidare dai processi e dalle leggi naturali. I problemi sorgono quando le persone si pongono nella posizione di essere “padroni” della natura. Semmai, la natura dura islandese avrebbe dovuto rendere gli islandesi ancora più umili. Non sono sicuro che sia così, almeno non nella sfera politica».

Un punto, questo, in particolare rispetto alla posizione dell’Islanda verso l’Europa, su cui lo scrittore ha idee fortemente critiche.

«Non è ancora un membro della Ue, per esempio. Gli islandesi hanno paura per la pesca. Io personalmente preferirei cedere la nostra quota di pesca all’Europa in cambio di altri vantaggi, piuttosto che cederla a quattro o cinque famiglie islandesi, come succede oggi. Per come la vedo, l’Islanda ha fatto molto più affidamento sull’America, con la sua politica del laissez faire e del libero mercato in ogni settore, che sull’Europa. Sotto molti aspetti questa è la più grande tragedia dell’Islanda»

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