venerdì 8 dicembre 2023
Morta appena ventenne, le sue opere trasmettono una sensazione di compiutezza e documentano una maturità interiore che ha del prodigioso. Con un fervore più mistico che passionale nella sua fisicità
La poetessa francese Alicia Gallienne (1970-1990)

La poetessa francese Alicia Gallienne (1970-1990) - Alvaro Canovas / Morosini editore

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Alicia Gallienne morì il 24 dicembre 1990, alla vigilia di quello che avrebbe potuto essere il suo ultimo Natale. Aveva vent’anni, ne avrebbe compiuti ventuno da lì a qualche settimana, il 20 gennaio. E con questo basta con i condizionali, basta con quello che avrebbe potuto essere e non è stato, perché nella sua vita così breve, illuminata da una naturale bellezza e da un’eleganza altrettanto naturale, Alicia Gallienne è stata molto, ha fatto molto. Il suo corpus poetico trasmette una sensazione di compiutezza, documentando una maturità interiore che ha del prodigioso. Il paragone che viene alla mente è, d’istinto, quello con Arthur Rimbaud, altro poeta che dà tutto di sé prima di superare la soglia dei vent’anni. Ma se Rimbaud si allontana dalla scena letteraria di sua volontà, cercando rifugio in un’esistenza sotto il segno del paradosso, Gallienne è costretta all’abbandono da una malattia crudele, l’aplasia midollare. Appassionata di moda, nasconde i segni che le cure lasciano sul suo corpo (« Mio Dio, che io non perda mai i capelli!…», mormora in calce a una lettera). A un certo punto, ricorda un testimone, le sue scapole assumono un colore bluastro, quasi a tradire una parentela con le fate, o magari con gli angeli. Sì, in lei c’è qualcosa che rimanda a Rimbaud, ma un Rimbaud riletto attraverso Paul Éluard, che dell’opera di Gallienne risulta l’antecedente più significativo. Antecedente, non modello. Quel che è davvero prodigioso, in questa storia che ci arriva dal tramonto del secolo scorso, è il carattere di originalità che la voce di un’autrice così giovane assume con imperiosa rapidità. Spostandosi in Italia, si potrebbe arrischiare un’analogia con Antonia Pozzi (1912-1938), che di Alicia Gallienne sembra per molti aspetti la sorella maggiore. Anche Pozzi, però, sceglie di uscire di scena di sua iniziativa, togliendosi la vita. Pur avendo dimestichezza con la morte (nel 1977 aveva perso il fratello Éric, anche lui ventenne e destinato a essere una presenza costane nei suoi versi), Galliene invece non desiderava altro che vivere. Le notizie fin qui fornite provengono dalla prefazione – ma sarebbe più corretto parlare di racconto critico – con cui la scrittrice Sophie Nauleau accompagna la sua vasta selezione degli scritti di Gallienne, rimasti a lungo inediti e pubblicati solo nel 2020 in Francia per iniziativa di uno dei cugini di Alicia, l’attore e commediografo Guillaume Gallienne. Nel nostro Paese L’altra metà del sogno mi appartiene uscirà in tre volumi, tutti curati da Francesco Zambon per l’editore veneziano Molesini. Il primo (pagine 168, euro 18,00), apparso di recente, contiene due serie poetiche, Le Dominanti e I Notturni, entrambe risalenti al periodo tra il 1986 e il 1988.

L’apprendistato di Gallienne era iniziato già in precedenza, avverte Nauleau, che dalla congerie delle prove adolescenziali estrae questi pochi versi, visitati da una precoce compostezza: «Un silenzio / cui tutto ho consegnato / mi invade, / palpita in me, / si accende e mi brucia». Questo fervore, più mistico che passionale, è il tratto più riconoscibile della scrittura di Alicia Gallienne, all’interno della quale non manca l’elemento della fisicità, sempre però trasfigurato in una dimensione di rivelazione e di sogno. Emblematico, nelle Dominanti, il ritratto del «messaggero», una delle più belle tra le molte prose poetiche che si alternano alle composizioni in versi: «Sei venuto una mattina, al culmine dell’aurora, con le tue mani così bianche e il tuo sguardo di carta». Allo stesso modo, è in un’altra prosa, La Strada, compresa questa volta nei Notturni, che Gallienne dà conto di una più sorvegliata capacità narrativa, con un risultato che ammicca a Fellini e intanto rende omaggio a Baudelaire: « Di colpo la notte cade come un lungo cappotto invernale, le stelle salgono sugli alberi e il cielo chiude bottega. Non c’è più nessuno per strada, tranne sempre quest’uomo, sulla terrazza di un caffè con le porte chiuse». L’incombenza della morte non può essere disattesa, ma tutto è come rischiarato da una «luce sconosciuta, / Di nessun luogo, / Che nacque dalle erbacce / E da una città senza mura». È questa origine ineffabile, probabilmente, la «metà del sogno» che Gallienne preferisce tenere per sé, senza affidarla alla mediazione della parola. « Perché rivolgere il nostro sguardo a Dio?», si domanda e intanto avanza nell’unico territorio nel quale la poesia abbia piena cittadinanza: l’insondabilità metafisica della ricerca, per cui «l’eloquenza del cuore» promette di condurre «a ciò che Dio creò di più bello». E ancora: «Ci sono fontane il cui fondo brilla come l’oro e in cui migliaia di monete ricoprono i mosaici come gli occhi di Cristo in fondo all’acqua. La mia moneta sembra fluttuare, come un sogno di pesantezza». Questa sollecitudine verso l’imperfezione, questa sapienza che permette di non arrendersi alla fatalità di un calembour crudele come La nuit tombe / La nuit, une tombe («Cade la notte» / « La notte, una tomba») è il dono che sottrae Alicia Gallienne alla condanna dei verbi al condizionale. La sua è una poesia all’indicativo presente, perché la poesia non può essere che qui, non può essere che adesso.

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