giovedì 5 agosto 2021
«Nessuno dimentica violenze e atrocità, ma non possiamo applicare al passato le categorie del presente: Bartolomé de las Casas difese i popoli indigeni in quanto sudditi della Corona»
Lo storico spagnolo Emilio Lamo de Espinosa

Lo storico spagnolo Emilio Lamo de Espinosa - Efe/Pablo Martin

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Il presidente messicano Andrés Manuel Lopez Obrador ha chiesto scusa alle popolazioni maya per i «terribili abusi » commessi contro i popoli indigeni negli ultimi cinque secoli. L’ha fatto in un gesto per alcuni storico, fra proteste e accuse di opportunismo dei destinatari, nell’anno in cui si celebrano tre anniversari importanti per il Messico: 700 anni dalla fondazione di Tenochtitlan, 500 dalla caduta della capitale azteca e dalla conquista da parte di Hernán Cortés e, dopo tre secoli come parte dell’impero spagnolo, 200 dalla proclamazione dell’indipendenza. È la prima delle ammissioni di colpa “per imperativo etico” che ripeterà nei confronti delle popolazioni indigene nelle grandi celebrazioni previste per “risignificare” il passato. E ha di nuovo reclamato al re Filippo VI – come già due anni fa – di fare ammenda per la Conquista. «Ma giudicare il passato con gli occhi e i criteri morali del presente sarebbe come negare il progresso morale dell’umanità », afferma Emilio Lamo de Espinosa, cattedratico della Real Academia de Ciencias morales y políticas ed ex presidente del Real Istituto Elcano di studi internazionali, coordinatore del volume La disputa del pasado. España, Mexico y la leyenda negra ( Turner). Un’opera corale in cui con altri sei storici delle due sponde dell’Atlantico analizza fatti e protagonisti degli eventi, per smontare stereotipi e letture interessate da entrambe le parti. Perché, come ricorda il cattedratico, «le querelle del passato possono sanarsi solo nel futuro, che è lo spazio dove tutti possiamo ricontrarci».

Fino a che punto le “rivisitazioni” della memoria possono cambiare la lettura della storia?

Nessuno dimentica violenze e atrocità, ma uno storico non può applicare al passato categorie del presente. Il Messico non esisteva nel 1520, per cui, chi sarebbe l’erede di quei guerrieri aztechi e tlaxcaltecas che, guidati da Cortés, si scontrarono in una guerra civile? Amlo, Filippo VI, entrambi o nessuno dei due? Non si può vivere come il personaggio di Borges, Funes el memorioso, imbevuto del ricordo interminabile di un istante lontano. E meno fare politica, che è futuro, guardando nel retrovisore, poiché la storia non si può cambiare. Ma è compito del passato orientare il presente, per questo va guardato senza paraocchi.

Negli ultimi anni il ruolo delle spedizioni spagnole nelle Americhe è stato motivo di controversie e i conquistadores sono accusati di genocidio. Quanto c’è di vero e quanto di leggenda nera in queste accuse?

La brutalità, e in alcuni casi le atrocità, sono innegabili. Da entrambe le parti. Ma, per cominciare, la conquista fu anche una guerra civile fra i popoli nativi. Poco avrebbe potuto fare Cortés senza l’appoggio dei tlaxcaltecas, soggiogati dagli aztechi penetrati dal nord, e per i quali Cortés fu senza dubbio – e lo è ancora oggi – un libertador dalla crudele oppressione. In secondo luogo, anche storici critici con gli spagnoli, come Mattez Restall in Cuando Moctezuma conoció a Cortés, riconoscono che non ci fu volontà di sterminio. Furono i germi più delle armi la causa della catastrofe demografica, che di certo non favorì gli spagnoli, alla ricerca di mano d’opera locale. E se non c’è volontà di sterminio non si può parlare di genocidio.

Nel volume si afferma anche che la “conquista” non fu tale, né è esistito il concetto di “colonia” nella Nuova Spagna: che conseguenze ha decostruire questi concetti?

Non si conquistò il Messico perché allora non esisteva. La parola Messico che deriva dal náhuatl, originariamente si riferiva alla valle del Messico e fu la sua spagnolizzazione a conferirle il significato attuale, per cui come Paese non ebbe questo nome fino alla sua indipendenza nel 1821. Né il Messico attuale è quello che fu “invaso”, né Cortés fu il conquistatore, ma uno strumento, il catalizzatore di una guerra civile latente, che durò vari decenni. La storia ci dice cose molto diverse da quella che si suppone sia la memoria politicizzata al servizio di interessi spuri. Lo stesso concetto di “colonia” è un’idea del XIX secolo inapplicabile a una realtà del XVI o XVII. L’istituzione del Viceregno della Nuova Spagna era parte della Corona come il dominio di Vizcaya, l’uno e l’altro sudditi allo stesso modo del re di Spagna. Bartolomé de las Casas difese i popoli indigeni in quanto sudditi della Corona spagnola e che, pertanto, non potevano essere ridotti in schiavitù.

Con i dati storiografici alla mano, quali furono le luci e quali le ombre dei trecento anni dell’impero nell’America spagnola?

Risponderò con una domanda: qual è il “racconto obiettivo” della conquista romana della penisola iberica da parte di Giulio Cesare? È di luci e ombre, ma senz’altro prevalgono le prime. Gli iberici furono pienamente romanizzati, e i nativi americani allo stesso modo furono incorporati nella cultura greco-latina, vale a dire in Occidente. È questa la luce che unifica una regione carente di unità economica o politica, ma che tuttavia ha un’importante unità culturale. Per questo, a differenza di molti miei colleghi, considero certa l’espressione “America Latina”: fu la romanizzazione di America ciò che portoghesi e spagnoli apportarono al continente. Per il resto, i matrimoni misti erano la norma, e le prime città, ospedali, università, strade, acquedotti, libri stampati, grammatiche di lingue indigene, ecc. in America furono opera di coloro che Toynbee chiamava “ iberian pioneers”, pionieri iberici, portoghesi e spagnoli. Al sud del Rio Grande oggi c’è un potente meticciato, anche con la popolazione africana, che manca al nord. Ed è un curioso paradosso che Donald Trump sostenga lo stesso che Evo Morales: America Latina non è Occidente, perché questo comincia a nord del Rio Grande. Un’idea che Lopez Obrador, incoscientemente, alimenta. Noi spagnoli conosciamo bene questa eccezione, perché per decenni ci hanno detto che Europa cominciava al nord dei Pirenei.

Sulle due sponde, si abbattono le statue di Cristoforo Colombo e si cancellano nomi alle strade. Cosa pensa della sua figura? E della cancel culture in generale?

Colombo scoprì l’America per caso, è certo, ma la scoprì. E non solo per gli europei, anche per gli americani. Quando vi arriva i popoli e le culture americani conoscono il proprio territorio e un po’ di quello dei vicini, ma poco più. Furono le grandi navigazioni d’altura, portoghesi, spagnole, poi francesi, italiane, inglesi, e le esplorazioni dell’interno che delimitarono il continente e poi il mondo intero. Per questo nelle mappe l’Europa figura al centro, nonostante sia geograficamente una piccola penisola all’estremo occidentale di Eurasia. Poteva andare diversamente. Sappiamo, ad esempio, che sotto la dinastia Ming e agli inizi del XV secolo l’ammiraglio Zheng He condusse niente meno che sette spedizioni navali con oltre 300 navi d’altura, scafi di oltre 150 metri, che imbarcarono circa 30mila persone. Un’impresa incredibile. Avrebbero potuto raggiungere America ma non lo fecero. Lo fece Colombo finanziato dalla Corona di Castiglia. Non fu un incontro come sostenne Leon Portilla [la massima autorità del pensiero nahuatl, ndr], fu una scoperta in piena regola.

Obrador afferma che la crisi politica attuale in America Latina radica nella conquista spagnola. Con quali ripercussioni sul Messico attuale?

Minori di quelle che si aspettava, come sta comprovando in questi giorni nel suo periplo fra le popolazioni native. È difficile credere che la corruzione, il narcotraffico, la violenza, le disparità o la povertà del Messico attuale siano responsabilità degli spagnoli, che furono espulsi duecento anni fa. In questo tempo si poteva aver fatto molto, per esempio si sono fatti gli Stati Uniti d’America. Anche Franco proiettava i suoi problemi sugli altri. Ma pochi abboccano. Gli zapatisti hanno detto ad Amlo chiaramente: gli spagnoli «non ci conquistarono» poiché «continuiamo in resistenza e ribellione ». Per aggiungere con amara ironia: «Di cosa ci chiederà perdono la Spagna? Di aver dato alla luce Cervantes? José Espronceda? Leon Felipe? Federico García Lorca? Dalí, Miró, Goya, Picasso, il Greco e Velázquez?... Di che ci chiederà scusa la Chiesa cattolica? Del passaggio di Bartolomé de las Casas? Di chi rischiò la libertà e la vita per difendere i diritti umani?». Per una volta sono d’accordo con loro.

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