Per comporre la prima pagina del Chicago Tribune, nell’edizione di giovedì 3 novembre, sono state sufficienti una foto e due parole. L’immagine è già eloquente di suo: cinque uomini in divisa blu con lettere e numeri rossi stretti in un abbraccio estatico mentre, sullo sfondo, il pubblico in delirio alza le braccia al cielo. Il titolo è semplice: «At last!», vale a dire «finalmente!», scritto a caratteri cubitali; e mai aggettivo fu più azzeccato, perché qui si parla dei Chicago Cubs e del più incredibile dei trionfi, il successo ottenuto contro i Cleveland Indians nelle World Series 2016 della Major League del baseball statunitense. Una vittoria destinata alla leggenda: i Cubs, che non portavano a Chicago il pennant dal 1908, ci sono riusciti dopo 108 anni esorcizzando quello che, sino a ieri, era il più lungo tabù nella storia dello sport.
Tu chiamale, se vuoi, “maledizioni”, e in effetti i Cubs erano vittime della «course of the Billy Goat», ovvero la maledizione della capra, l’anatema lanciato il 6 ottobre 1945 da William Sianis, grande tifoso dei Cubs e proprietario di un ristorante che sorgeva nei pressi di Wrigley Field, il diamante della squadra. Quel giorno si giocava gara 4 delle World Series contro i Detroit Tigers: Sianis non si sarebbe mai perso le finali, e così acquistò due biglietti. Uno era per sé, l’altro per la capra-mascotte del suo ristorante: entrò portandola al guinzaglio, salì sugli spalti, si accomodò. Tutto bene, non fosse che i vicini di posto presero a lamentarsi dell’odore dell’animale costringendo gli stewart ad allontanare Sianis e la capretta. Di lì la maledizione: non vincerete mai più le World Series, né ora né mai. Risero alle sue spalle, perché i Cubs guidavano la serie 2-1. Però persero quella gara. E persero alla fine quelle World Series, per poi non raggiungere mai le finali negli anni successivi. Poco importa che Sianis avesse ritirato pubblicamente il sortilegio nel 1969: maledetti una volta, maledetti per sempre. Anzi, quasi, perché l’anno di grazia 2016 ha infranto il maleficio.
Peraltro, nel modo più epico: i Cubs, dopo gara 4, perdevano 3-1 e agli Indians bastava davvero poco. È finita invece 4-3 e il pennant a Chicago è arrivato con l’8-7 dell’extra inning, il decimo, tanto per non farsi mancare niente. Cosa resta agli Indians? Il passaggio della maledizione, perché non vincono le World Series da 68 anni (l’ultima volta fu nel 1948). La chiamano maledizione di Rocky Colavito: tre finali perse (1995, 1997, 2016), in aggiunta a stagioni di sconfitte e record negativi, tanto da diventare nel 1989 i protagonisti di un film comico, appunto “Major League” di David Ward, al cui titolo originale il doppiaggio italiano aggiunse il sottotitolo icastico, «la squadra più scassata della Lega».
Dopo tutto, Cleveland di maledizioni se ne intende: si pensi alla Nba e a quella lanciata nel 2010 nei confronti di LeBron James, idolo dei Cavaliers passato ai Miami Heat. Un addio vissuto come un tradimento, tale da meritarsi appunto un anatema: LeBron, per i tifosi dei Cavs, non avrebbe mai vinto l’Anello prima di Cleveland. E, in effetti, nel 2011 James e gli Heat persero le finali. Ma i Cavs nemmeno le raggiunsero più, mentre James le vinse poi nel 2012 e nel 2013. Come finì? Con il ritorno, nel 2014, del figliol prodigo ai Cavaliers, finalisti sconfitti nel 2015 ma - finalmente - campioni lo scorso 20 giugno, con LeBron miglior giocatore.
Tornando al baseball, a lungo si è protratta la maledizione di George Babe Ruth, una storia d’altri tempi per uno dei più grandi giocatori di sempre. Babe, “il bambino”, era colonna dei Boston Red Sox quando, nel 1920, fu ceduto ai New York Yankees. Fu la fortuna di questi ultimi e segnò il declino dei primi. Gli Yankees cominciarono a fare la storia, i Red Sox non vinsero più le World Series sino al 2004, 86 lunghissimi anni dopo l’ultimo trionfo il cui protagonista era stato, appunto, Ruth.
Neppure l’Europa del calcio è immune dalle superstizioni e, in questo senso, ha fatto epoca la maledizione di Béla Guttman, l’allenatore magiaro che, vinte due Coppe dei Campioni alla guida del Benfica nel 1961 e nel 1962, quando la dirigenza delle Aquile lusitane gli rifiutò un premio economico per i successi ottenuti, decise di andarsene, profetizzando che in capo a cent’anni il club mai più avrebbe vinto una Coppa dei Campioni. Bene: da allora il Benfica ha perso ben 7 finali europee su 7, cinque delle quali proprio in Coppa dei Campioni. Il dramma è che mancano ancora 46 anni alla scadenza dell’incantesimo.