venerdì 18 marzo 2011
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Sugli 'appennini siciliani', che affondano le radici nelle acque del Tirreno e sfiorano il grande vulcano, sono custodite la storia e anche la preistoria dei popoli che hanno abitato l’isola più grande del Mediterraneo. Non è un caso che proprio ai piedi del Monte San Fratello, nella grotta di San Teodoro in territorio di Acquedolci, fu seppellito per millenni lo scheletro di una donna del paleolitico, rinvenuto poi nel 1937, risalente a un periodo che oscilla tra 14 mila e 11 mila anni fa, di cui gli scienziati palermitani hanno ricostruito il volto. È una culla d’arte e di civiltà il Valdemone, uno dei tre valli (o reali dominii al di là del Faro) in cui fu suddivisa la Sicilia dalla dominazione araba a quella borbonica e che comprendeva l’attuale provincia di Messina, estendendosi anche ad alcune aree ai piedi dell’Etna, a Troina, Nicosia e a Cefalù. Un nome particolare, sulla cui origine etimologica si scontrano varie tesi: dal Vallis Nemorum , ossia valle dei boschi, al greco ton diamenton , coloro che resistono (nella fede), come sostiene lo storico Michele Amari, che fa risalire il termine valli all’arabo wali , ossia le magistrature preposte alle province. Greci e Romani lasciarono la loro impronta lungo la costa tirrenica e negli insediamenti urbani che si inerpicano sui Nebrodi, i monti, oggi parco naturalistico, in cui si conservano ancora attività silvopastorali, contadine e artigiane antiche di secoli. Tra quelle alture riuscirono a sopravvivere alla dominazione araba alcune comunità greco-bizantine che, con l’arrivo degli Altavilla poterono contare sulla riorganizzazione abitativa, in particolare attorno ai castelli. Risorsero così, tra l’XI e il XII secolo, centri come Alcara Li Fusi, Caronia, Capizzi, Mistretta, Randazzo, San Fratello e San Marco d’Alunzio. I Normanni favorirono la ricostruzione degli antichi monasteri e la costruzione di nuovi con l’introduzione di ordini religiosi di culto latino e promossero la vita economica. È lo stesso viaggiatore e geografo arabo del XII secolo Idrisi a descrivere i centri della costa e il territorio intorno come plaghe fertilissime ricche di coltivi, tra cui sono vivaci attività, come quelle portuali e cantieristiche. Gli 85 mila ettari di parco racchiudono un patrimonio naturalistico straordinario, i boschi più estesi della Sicilia, con la faggeta più meridionale d’Europa, i laghi, la presenza di rapaci come aquile e grifoni che nidificano sulle rocce calcaree e di animali autoctoni di allevamento, come il suino nero e il cavallo sanfratellano. Luoghi unici per passeggiate alla scoperta di paesaggi e curiosità gastronomiche. Ma sono l’arte e l’architettura, che abbracciano ogni epoca, a lasciare senza fiato il visitatore. A partire dai castelli e dalle chiese del periodo feudale, prima fra tutti Santa Maria di Maniace, parte del complesso più noto come il castello di Nelson a pochi chilometri da Bronte, alle falde dell’Etna. Nel 1799 re Ferdinando di Borbone lo donò all’ammiraglio inglese Horatio Nelson come ringraziamento per l’aiuto prestatogli per sedare la rivoluzione partenopea. Il periodo più ricco è quello che va dal XVI al XVIII secolo, quando le potenti famiglie nobiliari fecero di tutto per rendere popolosi e accoglienti i centri abitati, spinti dall’interesse e da motivi di prestigio. Così anche nei paesi più sperduti tra le montagne arrivarono architetti, scultori e pittori famosi. Chiese e palazzi si arricchirono di opere d’arte, dai crocifissi lignei di Fra’ Umile da Petralia a Galati, Cerami e Militello Rosmarino, ai balconi e portali barocchi di Mistretta. La scultura marmorea è rappresentata soprattutto dai Gagini. Il capostipite Domenico scolpì, per esempio, una Madonna delle Grazie a San Marco d’Alunzio. Ma fu Antonello Gagini, già attivissimo a Palermo, il più prolifico, realizzando Madonne a Bronte, Galati, Longi, Tortorici. A lui è attribuita anche la splendida Annunziata della chiesa madre di Ficarra, di cui quattro anni da si è celebrato il giubileo per i 500 anni della statua, a cui è legata una leggenda affascinante. Racconta la tradizione, infatti, che un veliero in navigazione nel Tirreno, con la statua dell’ Annunziata a bordo sia stato costretto a una sosta forzata sulla spiaggia di Brolo per una tempesta. Tornato il sereno, inutili si rivelarono i tentativi di riprendere la navigazione: una forza misteriosa tratteneva il veliero. I marinai abbandonarono la pesante statua su quella spiaggia. In tanti tentarono di sollevarla, ma vi riuscirono solo gli abitanti di Ficarra. Proprio come si narra sia arrivata a Tindari, sempre sulla costa tirrenica, la celebre statua della Madonna Nera, meta di pellegrinaggi da tutta la Sicilia. Ma la memoria di questi luoghi è custodita anche dalla conservazione di beni etnoantropologici, dalle ceramiche di Santo Stefano di Camastra, agli strumenti della vita contadina del museo di Ucrìa. Straordinario nel suo genere è il 'Museo del costume e della moda siciliana', ospitato a palazzo Cupane a Mirto. Tra i reperti più originali spicca la camicia rossa del garibaldino Antonio Scionti, che combatté valorosamente nella celebre battaglia di Milazzo del 20 luglio 1860, che segnò la definitiva liberazione della Sicilia dai Borboni.
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