giovedì 19 aprile 2012
​Una meditazione del cardinale Scola sulla parola poetica del beato Giovanni Paolo II. La discesa nel mistero umano, contro le ideologie.
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Fino a domani (venerdì 20 aprile) i giovani sacerdoti ambrosiani sono in Polonia per il tradizionale pellegrinaggio a loro riservato, guidato dall’arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola. Il pellegrinaggio ha al centro la figura di Giovanni Paolo II e la visita ad alcuni luoghi significativi della sua vita (anche a Wadowize, paese natale), del suo ministero di sacerdote e di vescovo. Altre tappe sono quelle a Cracovia, Auschwitz-Birkenau, la chiesa Arka Pana a Nova Huta. Infine, domani, il pellegrinaggio si conclude con la Messa presieduta dall’arcivescovo nel Santuario di Czestochowa. Ieri, invece, il cardinale Scola ha tenuto al santuario della Divina Misericordia di Nova Huta una meditazione su «Giovanni Paolo II: dialogo con la cultura e critica delle ideologie», soffermandosi sulla poesia del beato Wojtyla, testo di cui pubblichiamo qui alcuni stralci.
 
Il nostro è un pellegrinaggio sulle orme di un testimone: il beato Giovanni Paolo II. Per questa ragione la modalità del nostro convenire qui è quella della "meditazione", quindi dell’immedesimazione col testimone Wojtyla. Ho preferito proporvi un percorso attraverso la poesia perché nei suoi versi il poeta Wojtyla ci dice ciò che ama di più, ciò che costituisce il nucleo della sua esperienza, di quell’esperienza di uomo raggiunto e trasformato dalla grazia della Pasqua. La poesia ci introduce nella verità delle cose, indica sempre un cammino verso la verità: attraverso la bellezza – anche quella letteraria – ci offre infatti un accesso privilegiato alla verità. Nella primavera-estate del 1939, quando ancora era giovanissimo, Karol Wojtyla in Cracovia scrisse un inno intitolato Magnificat. Leggiamone qualche versetto: «Esalta, anima mia, la gloria del Signore, / Padre d’immensa Poesia – così buono (…) // In te risuoni, anima mia, la gloria del tuo Signore (…) // grato, perché misteriosamente rendesti angelica la mia giovinezza, / perché da un tronco di tiglio scolpisti una forma robusta. // Tu sei il più stupendo, onnipotente Intagliatore di santi / – la mia strada è fitta di betulle, fitta di querce – / Ecco, io sono la terra dei campi, sono un maggese assolato, / ecco, io sono un giovane crinale roccioso dei Tatra. // Benedico la Tua semina a levante e a ponente – / Signore, semina generosamente la Tua terra / che diventi un campo di segale, un folto di abeti / la mia giovinezza sospinta dalla nostalgia, dalla vita. // La mia felicità – grande mistero – Ti esalti / perché hai dilatato il mio petto in un canto primordiale, / perché hai permesso al mio volto di tuffarsi nell’azzurro, / perché hai fatto piovere nelle mie corde la melodia».
Ha appena 19 anni, eppure la coscienza della paternità di Dio e, pertanto, della sua costitutiva dipendenza nei confronti di questo Padre così buono, è palese in questi versi: Dio – il Signore della gloria – è il Padre d’immensa Poesiacosì buono: quella poesia che si percepisce nel creato e nell’anima dell’uomo; Egli è l’onnipotente Intagliatore, colui che semina generosamente la felicità del poeta, colui che fa piovere nelle mie corde la melodia; e il giovane poeta, la sua giovinezza, è un campo di segale, consapevole che la vita può essere feconda grazie alla semina del Padre; per questo la sua anima benedice ed è piena di gratitudine. Il giovanissimo poeta ci fornisce così l’origine dell’antidoto contro ogni ideologia: la coscienza della dipendenza dal Padre. Chi dipende dal Padre è libero nei confronti di tutto e di tutti: l’esperienza di questa dipendenza filiale è dunque un bene, non una schiavitù. Ne è prova l’orizzonte che essa spalanca alla vita: hai permesso al mio volto di tuffarsi nell’azzurro. L’azzurro del cielo, dell’universo intero, dell’infinito in cui l’uomo si tuffa, attraverso il rischio affascinante e personale della sua libertà.L’uomo vive, ma non ha deciso da sé di vivere, non si è dato la vita: nessuno gli ha chiesto se lo voleva o meno, prima di chiamarlo all’esistenza. In questo modo egli si trova nel presente donato a se stesso, dinanzi all’immensità di quanto lo circonda e lo supera da ogni parte. Ecco perché ci fermiamo davanti a verità per cui mancano le parole, manca il gesto e il segno. Non appena si sofferma un istante a considerare la realtà, ogni uomo si rende conto che essa è gravida di un mistero di cui egli non conosce il nome: sa che nessuna parola, gesto o segno saprebbe contenere l’intera immagine. Wojtyla ci aiuta a ricuperare lo stupore dinanzi al mistero della nostra vita , lo stupore di fronte al fatto di essere stati fatti co-agonisti (perché protagonista è il Padre, colui che ci ha creati) di un’esistenza che ci supera da ogni parte. Pensiamo, ad esempio, al fatto tanto comune quanto inaudito della nascita di un bambino: possiamo ben descriverlo tramite l’espressione che abbiamo appena citato «nessuna parola, gesto o segno saprebbe contenere l’intera immagine». È sicuramente un avvenimento che ci supera da tutte le parti. Con questa grandezza siamo invitati a instaurare un rapporto personale. In essa ci è chiesto di penetrare da soli, a lottare come Giacobbe. Questo da soli dice un dato elementare: nessuno può sostituirsi a te nel tuo rapporto personale col Mistero. È possibile e necessario trovare compagni di strada, sostenersi a vicenda nel cammino, ma ognuno di noi è chiamato personalmente al confronto, perché ad ognuno di noi è stata data personalmente la propria, personale vita. Nessuno è però realmente in grado di sostenere la tensione di questa lotta, di questa avventura. Wojtyla descrive in modo molto acuto tale difficoltà: nella nostra vita le strade scorrono troppo in fretta. E così tentiamo di imbrigliarle, di dominare noi stessi la nostra esistenza, imprimendole il ritmo che noi abbiamo deciso: sulle strade egli ha un suo ritmo che di continuo lo bracca e distrae dal suo lavoro più profondo. Chi di noi non si riconosce in queste parole?
Persino i momenti di maggior stupore e consapevolezza, di maggior commozione davanti al mistero del nostro proprio essere, quegli istanti in cui abbiamo percepito il mistero che abita tutta la realtà, cedono inevitabilmente il passo al tran-tran quotidiano, alla monotonia della vita, al non attendere più niente, al pensare che ormai sappiamo già tutto… Il ritmo delle giornate ci seduce, ci bracca e ci distrae dal lavoro più profondo: quello di essere uomini, di vivere secondo la grandezza del nostro cuore, secondo la sete che ci costituisce. Eppure queste seduzioni e queste distrazioni non riescono a soffocare completamente la nostra percezione del mistero della realtà, perché esso si rende sempre di nuovo presente, in modo imprevisto e sorprendente. Sradicare l’intuizione del mistero della realtà dal cuore dell’uomo sarebbe come strappare il cuore stesso, abolire l’humanum nell’uomo. Si comprende allora quale sia il fondamento della critica di Wojtyla alle ideologie: esse pretendono di estirpare il mistero dal cuore dell’uomo o, almeno, di sostituirsi a esso. Per questo siamo continuamente in lotta, come Giacobbe. Ma, attenzione! Questa lotta è un bene, è la lotta del nostro essere uomini. Wojtyla ci invita a non disertare la lotta con questi bellissimi versi: «Invano cercherai d’acquietarlo, come un bambino destato dal sonno: / non rinunciare al bagliore degli oggetti, resta, caro, / nel tuo stupore! / Parole inutili! Come, non senti? Per sua virtù / Sei così immenso nel chiarore delle cose /che devi cercare per esse, in te, uno spazio migliore». Quello spazio migliore è lo spazio del Volto, velato ma reale, del Mistero. A questo itinerario siamo chiamati tutti. E la poesia che commentiamo si conclude infatti con queste parole: «Se cerchi il luogo, dove si dibatteva Giacobbe, / non vagare fino ai paesi d’Arabia, non cercare sulle mappe il torrente, / troverai molto più vicino le orme. / Lascia solo che nella prospettiva dei tuoi pensieri appaiano le luci degli oggetti».
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