venerdì 9 febbraio 2024
Al Mart una selezione degli autori di Pechino di terza generazione indaga sul rapporto col mercato. Una storia iniziata negli anni '80 e che nel 1993 era arrivata alla Biennale di Venezia
Una composizione pittorica dell’artista cinese Zhang Zhaoying ispirata liberamente al “Polittico dell’Agnello mistico”, intitolata “Mysterious Party”, 2017-2018 (particolare)

Una composizione pittorica dell’artista cinese Zhang Zhaoying ispirata liberamente al “Polittico dell’Agnello mistico”, intitolata “Mysterious Party”, 2017-2018 (particolare) - Mart Rovereto/Carlo Baroni

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Ancora quarant’anni fa in Cina la definizione dell’arte come prodotto borghese poteva servire per combattere quello che veniva visto come disfattismo contro il comunismo imposto dalla rivoluzione culturale. Ma questa “critica” non nasceva negli anni Ottanta, anzi, si deve retrocedere fino agli anni Cinquanta, quando la morte di Stalin allentò la stretta sugli artisti condizionati dall’estetica sovietica, e nella seconda parte di quel decennio Mao Zedong diede il la a quella campagna di maggiore autonomia espressiva detta anche “dei cento fiori” perché il Grande Timoniere si espresse auspicando che «cento fiori fioriscano, che cento scuole di pensiero gareggino».

Non si dimentichi che Mao era anche un grande comunicatore, il compito che egli attribuiva all’artista era quello di intercettare e guidare il desiderio delle masse. E il mezzo fondamentale era la “rieducazione” – o per così dire il lavaggio del cervello – perché soltanto in milioni di teste rigenerate dall’ossessivo ripercuotersi della bonifica culturale sulle menti, il modo di pensare delle masse sarebbe diventato progressivamente più giusto e più razionale, in sostanza omologato a un pensiero collettivo.

Unendo utopia e romanticismo idealista con la forza lavoro di milioni di cinesi (in particolare donne), la bonifica sociale ha poi partorito il mostro a due teste: il comunismo capitalista, sorretto però da un grande orgoglio nazionalista, tutt’altro che becero, anzi un distillato della millenaria cultura pragmatica cinese aggiornato sui proclami populisti.

Il filosofo François Jullien da oltre due decenni ne sta scrutando i nessi e le antinomie rispetto al pensiero idealista occidentale derivato da Platone e dalla tradizione biblica: una delle sue ultime fatiche è il saggio Mosè o la Cina, che riprende una domanda di Pascal, dove l’Altrove cinese sospeso tra cielo e natura gioca un ruolo piuttosto diverso dalla nostra proiezione sacrale dell’Alterità. Ma forse, pensa Jullien, è proprio in questa idea di Dio che l’Occidente rischia il suo tramonto definitivo.

Gli artisti cinesi, a lungo repressi nei confini di una cultura gelosa della propria storica avvedutezza, governati da un leader moderno capace di mostrare al suo popolo un prossimo destino di grandezza (con milioni di morti sacrificati all’ideologia e a immensi programmi di trasformazione inzuppati del sudore e del sangue di tanti), dopo la fine degli anni 70 hanno rialzato la testa e gettato lontano il loro sguardo sulle lontane vette della libertà.

Un sentimento politico nuovo, quanto ancora nebuloso, poco alla volta ha reso più larghe dopo la morte del Grande Timoniere le maglie della “grande muraglia”; alcuni hanno viaggiato all’estero, in Europa e in America, per prendere coscienza e, in qualche caso, organizzare mostre “trasgressive” anche dentro i confini della Cina, tracciando così il solco per impiantare nuovi movimenti artistici come Le stelle o il Graffio allestendo, nel 1989 alla Galleria Nazionale di Pechino, una esposizione sulle avanguardie dove si metteva a frutto la lezione di Duchamp e quella della Pop art.

In Europa i passi verso la libertà fin lì fatti dai nuovi artisti di Pechino (nel frattempo era caduto il Muro di Berlino e tramontato il sovietismo) vennero testimoniati da Achille Bonito Oliva alla 45ª Biennale di Venezia, nel 1993, sotto il titolo “Passaggio a Oriente” dove per la prima volta la pittura cinese dimostrava di volersi liberare dagli schemi imposti dal regime comunista. Era un raggio di luce a quatstato tro anni dalla storica sfida sulla piazza Tienanmen.

Oggi, ricordando quel periodo, il critico Lü Peng parla di “arte delle cicatrici”, che è l’arte di rendere prezioso un manufatto riparato unendo i pezzi con una sorta di mastice dorato. Così le ferite di cui resta traccia definitiva sono l’orgoglio del pensiero critico e della denuncia; oltre la retorica della “celebrazione”. Il pittore Wu Guanzhong, morto novantunenne nel 2010, sosteneva che la bellezza formale e quella astratta erano armi di lotta per affermare la libertà dell’artista.

Peng, che cura con Paolo De Grandis la mostra Global painting. La nuova pittura cinese allestita con ampiezza di spazi al Mart fino al 14 aprile, ricorda che fino alla fine degli anni 80 la parola d’ordine era: “liberare la mente”, soprattutto nel momento in cui anche in Cina si era aperto il varco una variante del capitalismo. La mostra dell’89 fu vista, scrive Peng nel catalogo (Skira), come la vittoria del modernismo. Ma fu proprio la mostra della Biennale di Venezia a sancire che stava diffondendosi una pittura cinese contemporanea.

Vent’anni dopo fu allestita ancora alla Biennale (la 55ª) un’altra collettiva cinese che annunciava un “Passaggio alla storia”, ricorda oggi Paolo De Grandis, in un’emblematica consegna del testimone che, adesso, dieci anni dopo quella rassegna, è messa nelle mani di una nuova generazione. Il clima cinese è di grande fervore economico, la ricchezza prodotta ha posto le basi per una colonizzazione territoriale dell’Africa e di altri luoghi strategici planetari, nell’ottica di una supremazia che, affermata coi mezzi del capitale, si prepara a ben altre forme di imperialismo.

Non bisogna far finta che la Cina cerchi soltanto il business, ciò che vuole è decidere i destini del mondo. E questo tutto sommato nella mostra del Mart non emerge granché dal senso critico dei pittori cinesi che giocano altre carte iconografiche: nulli praticamente i richiami al periodo del Covid, a quello della guerra in corso, all’inquinamento planetario di cui la Cina è tra i maggiori responsabili: temi non didascalici, ma possibili metafore di altri malesseri “politici”; si tratta di capire fino a che punto orgoglio e volontà di potenza incidano anche nella mente di questi artisti con forme di autocensura o di fuga nell’individualismo.

A questo proposito, una osservazione puntuale di Peng concerne la loro ricerca soggettiva. Sono nati tutti fra i trenta e i quarant’anni fa, hanno studiato nelle accademie cinesi e, chi più chi meno, hanno seguito una strada di apparente liberazione linguistica, ma in realtà non sembrano eredi del Realismo cinico o del Pop politico di fine Novecento, parlano una lingua che balbetta sintagmi ereditati dal confronto soprattutto con l’Occidente, si allineano a una società del consumo triste, dove ci si rallegra con forme di surrealismo poco immaginifico o di un grottesco che ricalca schemi sia della pittura europea del passato, sia forme di un realismo dove le stesse citazioni vengono stravolte in iconografie che ha toni sarcastici e ironici: si veda la moltiplicazione e variazione “parafrasata” del Polittico dell’Agnello Mistico, che Zhang Zhaoying ha intitolato Mysterious Party del 2017-18, dipanarsi su una parete per circa sei metri con le figure (anche Adamo ed Eva nudi) che indossano maschere antigas o la maschera a becco d’uccello dei medici della peste.

È l’opera più connotata dalla scelta fatta dal pittore, di per sé provocatoria ma a suo modo necessitata dal linguaggio ironico, eppure non rappresentata in catalogo. Perché? Si sarebbe tentati di pensare che voglia esprimere un giudizio sullo di salute dell’umanità (una specie di inferno dantesco), ma poi ti rendi conto che forse è soltanto l’ennesimo ammonimento contro i pericoli dell’inquinamento atmosferico (ma giocato su una iconografia occidentale, a far capire chi sia il primo colpevole).

Nell’opera manca il riferimento al personaggio principale, il capro espiatorio, l’Agnello mistico: se quest’opera fosse stata dipinta durante la Grande Guerra da Otto Dix l’Agnello resterebbe il centro della scena anch’egli con la sua maschera antigas (si ricorderanno certe fotografie dove, con tragica ironia, a un cavallo viene fatto indossare questo accessorio che forse gli salverà la pel-le),: sarebbe una cinica parodia della salvezza e del dolore irredimibile.

L’osservazione più puntuale di Peng riguarda ciò che unisce questi pittori. Nulla, in pratica. O per antitesi: «Le loro pratiche sembrano negare ogni definizione. È difficile, se non fuorviante, inquadrare questi giovani artisti o classificare le loro opere in base a uno stile o un genere consolidati » (tra loro si segnalano per poetica pittorica Ge Hui, Lin Wen, Qi Wenzhang, Shen Muyang, Wang Yilong, Wu Qian, Zhai Liang). Si potrebbe commentare che il loro solipsismo stilistico è una tragica scelta che sul piano formale non rivela – come nel 1993 – uno scenario nuovo, ma è nuova pittura per un semplice dato cronologico. E la «graduale scomparsa del nazionalismo» dal loro immaginario potrebbe, invece, avere la conseguenza di far emergere una ingannevole idea dell’appartenenza (coerente con il senso del Global Painting).

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