giovedì 27 giugno 2019
Parla Ralph Fiennes, il regista del biopic sul mitico ballerino russo, che approda sul grande schermo: «La vita di Rudolf insegna ai giovani a inseguire i propri sogni senza temere le conseguenze»
“Nureyev - The White Crow”: Oleg Ivenko nei panni di Nureyev e Ralph Fiennes in quelli di Pushkin

“Nureyev - The White Crow”: Oleg Ivenko nei panni di Nureyev e Ralph Fiennes in quelli di Pushkin

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Ama prima di tutto Shakespeare, che non perde occasione di portare in teatro o sul grande schermo, ma ha detto sì alla saga di Harry Potter, dove ha interpretato il malvagio Voldemort, e a James Bond, di cui è addirittura il capo. La sua carriera cinematografica è esplosa grazie a Schindler’s List - La lista di Schindler ed è proseguita con Il paziente inglese, Spider, The Constant Gardener - La cospirazione, Grandi speranze, Gran Budapest Hotel, A Bigger Splash, Ave, Cesare!. Lo rivedremo nei panni del compositore Georg Friedrich Händel mentre si prepara alla premiere del Messiah, ma nel frattempo l’inglese Ralph Fiennes si dedica ad accompagnare nel mondo il suo terzo film da regista, Nureyev - The White Crowsul celebre ballerino russo che nel 1961, approfittando di una tournée europea, decise di chiedere asilo politico in Francia.

Cosa l’ha spinta a raccontare la storia di Nureyev?

Sono quasi vent’anni che medito sul romanzo Rudolf Nureyev: The Life di Julie Kavanagh. Vent’anni fa, quasi dieci prima del mio debutto dietro la macchina da presa con Coriolanus, non pensavo certo che sarei stato proprio io a dirigere la storia del ballerino più famoso del mondo, il primo cittadino sovietico illustre a disertare la propria patria per trasferirsi in Occidente. Io non l’ho mai visto sul palco e non sono così interessato a balletto, ma sono affascinato da questo artista ossessionato non solo dalla danza, ma anche dal desiderio di rendere densa di significato la sua presenza sul palco. Nureyev non voleva essere uno «stupido accessorio » per le ballerine e per questo reinventò la performance maschile rendendola molto più intensa. Divenne un vero e proprio attore drammatico.

Il film, che racconta anche l’infanzia e la formazione del ballerino, ruota intorno alla sua decisione di abbandonare l’Unione Sovietica e la sua famiglia per chiedere asilo politico al governo francese. Una scelta narrativa chiara sin dall’inizio?

Insieme allo sceneggiatore, David Hare, mi sono chiesto cosa volevamo davvero raccontare. È stato da subito chiaro che era la storia della diserzione del giovane Rudolf, ma per farlo abbiamo intrecciato tre linee temporali componendo un ritratto dell’evoluzione di questo ragazzo per arrivare all’aeroporto di La Bourget nel giugno del ’61. I tre tempi si uniscono proprio in questo punto. Quello era anche l’anno in cui i tedeschi costruivano il muro di Berlino.

Si dice che Nureyev fosse una persona molto difficile, spesso crudele.

Si, mi hanno raccontato storie terribili su di lui, aveva un aspetto infantile che lo rendeva capriccioso, cattivo, persino feroce. Ma Rudolf era nato per danzare e alla danza ha sacrificato tutto, anche le perso- ne che amava. In un certo senso il percorso fatto per salire così in alto giustifica molti suoi comportamenti così radicali, che rispondevano a dinamiche diverse da quelle che regolano le normali relazioni umane. Lui, così ricco di charme, intelligenza e ambizione, ma al tempo stesso fragile e vulnerabile, spingeva il limite sempre più lontano, era costantemente “affamato” e non avrebbe mai potuto tollerare l’oppressione del sistema sovietico. Hare è bravissimo nel tratteggiare personaggi provocatori, estremi, dal temperamento forte, in altre parole impossibili. Ed è altrettanto bravo a inserirli in un preciso contesto sociale e politico.

Quanto è stato difficile girare le scene di danza?

Molto difficile, ma ho potuto contare sull’aiuto di Igor Selensky, ex primo ballerino del Mariinsky Ballet, ora direttore artistico del Novosibirsk Theater of Opera and Ballet, e su quello del coreografo Christopher Wheeldon.

Da dove nasce il suo amore per la letteratura russa?

Non ricordo esattamente, ma è una passione davvero intensa che non riguarda solo la letteratura e la lingua, che ho studiato un po’ a intermittenza e che sto dimenticando. È qualcosa di più intimo e spirituale, che mi spinge a provare per i miei amici di San Pietroburgo, ad esempio, una connessione più forte di quella che mi lega alle persone della mia famiglia. È come se in quei luoghi, tra quella gente, io riuscissi a esprimere qualcosa di me che di solito rimane nascosta.

Nel film emerge forte il tema dei confini da superare, di una patria da scegliere, del diritto all’asilo politico e alla libertà. Riflessioni molto attuali.

Ho sempre creduto in un’Europa aperta a razze e culture diverse, tollerante e liberale. Sono sempre stato contrario alla Brexit, ma oggi l’ondata nazionalista e populista sembra inarrestabile e a rischio sono i diritti civili, minacciati da paure e divisioni.

È il suo terzo film da regista dopo Coriolanus e The Invisible Woman. Da che parte della macchina da presa preferisce stare?

Sono lavori diversi. Da regista ho scoperto quanto sia bello guidare, coccolare, incoraggiare, insegnare. La mia troupe si è sempre trasformata nella mia famiglia.

Meglio il set cinematografico o il palco teatrale?

Il teatro è il mio grande amore, ho da poco terminato la produzione di Antonio e Cleopatra. Shakespeare per me è sempre il porto sicuro dove riapprovare.

Che cosa può insegnare oggi, specie alle nuove generazioni, la storia di Nureyev?

Rudolf veniva da nulla, era poverissimo, ma seguendo la sua vocazione è diventato un simbolo di libertà e autodeterminazione. Vorrei allora che il suo percorso umano e artistico insegnasse ai giovani quanto si può andare lontani quando si inseguono i propri sogni senza temerne le conseguenze.

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