sabato 24 aprile 2021
Erano abissini, etiopi, libici che, bloccati dalla guerra in Italia, scelsero di unirsi, dopo l’8 settembre, ai combattenti per la libertà. Alcuni caddero in battaglia o nelle rappresaglie naziste
Partigiani della banda Mario. Il terzo in basso da sinistra è Abbamagal, dietro di lui, don Pocognoni

Partigiani della banda Mario. Il terzo in basso da sinistra è Abbamagal, dietro di lui, don Pocognoni - -

COMMENTA E CONDIVIDI

Diventò il suo nome di battaglia ma all’inizio i compagni d’arme lo chiamavano Carletto in senso affettuoso, perché esile e piccolo di statura. D’altronde, Abbabulgù Abbamagal era un nome impossibile da pronunciare anche per i contadini che, come ospite clandestino, gli davano da mangiare o lo nascondevano nei fienili durante i rastrellamenti della Wehrmacht. “Carletto” era un partigiano dalla pelle nera, un abissino che ha combattuto sulle montagne dell’Alto Maceratese per affrancarci dal nazi-fascismo, insieme con altri undici africani, tra cui due donne, esuli per forza come lui e nostri compatrioti per scelta. E proprio lì, tra le foreste di faggi secolari intorno all’altopiano di Canfaito, Abbabulgù venne ucciso in uno scontro a fuoco con i tedeschi. Avrà avuto vent’anni. A ricordarlo è una lapide posta in sua memoria l’8 luglio del 2014 nel cimitero di San Severino Marche, dove le sue spoglie furono composte e sono ancora custodite: «Nato ad Addis Abeba, morto sul Monte San Vicino. Etiope partigiano del Battaglione Mario di San Severino Marche. Insieme ad altri uomini e donne provenienti da tutto il mondo, caduto per la libertà d’Italia e d’Europa». Carlo faceva parte, infatti, insieme ad altri “profughi” arrivati loro malgrado dal Corno d’Africa, di una brigata multietnica costituita da un centinaio tra fuggiaschi, disertori e ribelli di dodici nazioni e tre religioni diverse: oltre a lui c’erano altri etiopi, ma anche eritrei, libanesi, somali, marocchini, russi, slavi, scozzesi, boemi e un ebreo inglese, ex prigionieri alleati.

Li aveva reclutati l’ufficiale istriano Mario Depangher, uno dei protagonisti della Resistenza nel Centro Italia: la “Banda Mario” organizzava soprattutto azioni di disturbo alla milizia fascista e alle truppe tedesche occupanti e agiva nell’area tra Stigliano e Braccano di Matelica, il luogo dove il giovane parroco, don Enrico Pocognoni aiutava i partigiani: e un giorno per salvare i suoi parrocchiani da una rappresaglia delle “Ss” il sacerdote si mise a suonare le campane della chiesa. I nazisti gli perquisirono la canonica dove trovarono divise di soldati inglesi e una radio. Venne preso e fucilato con altri tre combattenti il 24 marzo del ’44: al fianco di don Enrico morì il somalo Thurnur, partigiano d’oltremare. Il rifugio della Brigata Mario era nascosto in un bosco di Valdiola, una gola che si snoda lungo il fiume Musone. Anche qui, lo stesso giorno del sacrificio del parroco matelicese, avvenne una strage per mano dei nazifascisti, e un’al- tra, poco più tardi, si perpetrò sul ponte di Chigiano, una frazione di San Severino Marche, dove cinque giovani tra i 20 e i 22 anni, furono intercettati dai tedeschi, feriti alle gambe, torturati e gettati nel fiume. Ma Abbamagal non ebbe modo di partecipare a queste azioni di guerriglia perché quattro mesi prima, nel pomeriggio del 24 novembre 1943, rimase vittima, sulla strada tra Frontale d’Apiro e San Severino, dell’attacco di una pattuglia di altoatesini della Wehrmacht: era con il comandante Mario e altri due partigiani, due nazisti vennero uccisi ma lui fu freddato da un terzo che, pur ferito, non voleva arrendersi.

Ma qual è la storia di “Carletto” e degli altri africani arruolati dal movimento resistenziale marchigiano? Viene raccontata da un’attenta ricerca dello storico Matteo Petracci, autore del libro Partigiani d’oltremare (Pacini Editore, pagine 192, euro 15,00). Nel 1940 la Mostra delle Terre italiane d’Oltremare in un’area tra Bagnoli e Fuorigrotta, presso Napoli, presentava la ricostruzione di un villaggio indigeno dell’Africa coloniale abitato da eritrei, etiopi, somali, libici, una sessantina di persone, tra cui alcune “sciarmutte” e bambini, deportati dai loro luoghi d’origine per far vedere agli italiani come si viveva ai confini dell’Impero. Erano stati scelti quelli che parlavano la nostra lingua e ognuno interpretava un ruolo: l’esposizione aveva scopi propagandistici, il regime voleva giustificare l’opera di “civilizzazione” intrapresa da Mussolini nelle nuove terre conquistate. Ma l’esposizione rimase aperta al pubblico solo un mese e un giorno perché l’Italia il 10 giugno entrò in guerra.

E i figuranti del finto villaggio furono costretti a rimanere lì, isolati, fino al 1943, quando la comunità venne trasferita a Villa Spada di Treia (l’attuale Villa Quiete), nelle Marche, una nobile dimora trasformata in campo di deportazione. Ne arrivarono 58 e dopo qualche tempo ebbero il permesso di uscire dal loro recinto vivendo in una condizione di semilibertà, con rientro serale ma il controllo costante di un nucleo di carabinieri e di una squadra di ascari. Ebbero contatti con la gente del posto che li accolse e li aiutò. Con loro c’erano anche studenti somali che frequantavano università italiane. Capo della comunità era il somalo Aaden Shire, che aveva avuto un ruolo importante nel cosiddetto incidente di Ual Ual. In una stanza di Villa Spada erano custodite armi e munizioni del Regio Esercito, un arsenale che dopo l’8 settembre divenne l’obiettivo dei partigiani i quali organizzarono un assalto con la complicità degli internati, alcuni dei quali, come Carletto, colsero l’occasione per aggregarsi ai fazzoletti rossi del Monte San Vicino. Villa Spada fu liberata dagli alleati nell’aprile del 1944 e gli africani rimasti nel sito vennero finalmente rimpatriati.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: