mercoledì 20 giugno 2012
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«Questo è un paese oscuro a se stesso, nel quale tutti soffrono più malesseri che dolori, senza capirne con chiarezza il perché», scrive Guido Piovene, e questa frase sembra un pallone che rimbalza veloce fino ad arrivare ai piedi fatati di Mario Balotelli. Più che il suo Europeo, questa sta diventando «la guerra di Mario». Un conflitto costantemente aperto tra lui e il resto del mondo. E non basta un gol all’Irlanda - il secondo in 11 presenze in azzurro - a sbloccarlo, a renderlo più sereno e placarne la rabbia infinita sulla quale sguazzano i tabloid inglesi. Mentre noi, romantici latini, attratti per perenne spirito esterofilo dal primo “black-italian” della storia del calcio italiano, ci ostiniamo a tracciare ipotesi sociologiche (capro espiatorio del razzismo dilagante) o disquisire fino alla nausea del caso clinico (trauma dell’abbandono del figlio adottivo), degno dell’attenzione di Freud. L’Italia si spacca quando si parla di Balotelli, i tifosi avversari invece diventano delle belve appena vedono entrare la finta vittima sacrificale che in Premier indossò una t-shirt con su scritto «Why always me?». Già, perché sempre tu Mario? «A 17 anni non si può essere seri», cantava Leo Ferrè e forse i 21 di Balotelli non lo mettono ancora a riparo dalle ingenuità e i limiti di un’adolescenza non ancora conclusa. Non si spiegherebbe altrimenti questo finto ghigno criminale stampato in faccia, che è anche poco credibile, perché poi chi lo conosce a fondo non fa che ripetere: «Mario è un buono, un generoso». Lo sappiamo, anche se non fa notizia Oltremanica, che negli ultimi anni invece dei classici viaggi nelle spiagge vip, ha trascorso il Natale e il Capodanno nelle favelas, con i bambini abbandonati di cui si occupa la Onlus Meu Brasil. Esperienze da giovane sensibile, maturo, ma poi puntualmente al ritorno in campo, torna quello che non vorrebbe mai essere considerato, uno stupido bad-boy. Non c’è azione o gol mancato che non si azzuffi con l’universo. Otto turni di squalifica al City in questa stagione, un giallo alla prima con la Spagna a Euro2012 e una gomitata da rosso l’altra sera all’irlandese Dunne non vista dall’arbitro e per fortuna non andata a segno. Arbitri e avversari per lui sembrano tutti nemici da abbattere a un videogame. I compagni di Nazionale fanno fatica a tollerarlo e ancor più a frenarlo. Dopo l’eurogol agli irlandesi, Bonucci ha dovuto compiere l’intervento più difficile della partita: stoppare la bocca carica a pallettoni di Mario. «Stava parlando in inglese, gli è uscito qualcosa di troppo. Lui è fatto così - racconta il difensore. - Aveva tanta rabbia in corpo, l’ha sfogata. Soprattutto, l’ha sfogata con un gol». Ce l’aveva con chi lo fischia e lo massacra con gli oltraggiosi "buu-buu". O con Prandelli, reo di averlo fatto partire dalla panchina. O con il mondo intero. «Siete tutti figli di…», pare abbia urlato al vento di Poznan. Ma se anche la sportivissima Trap’s Army irlandese - che ha ritmato e applaudito persino all’inno di Mameli - ce l’ha con lui, forse sarebbe il momento che Mario si chiedesse ancora: perché sempre io? Qualcuno dice che Balotelli ce l’avesse con quei media che lo criticano e che non hanno ancora capito di che razza di “genio” si tratti. Leggenda, ma neppure troppa, narra che il 17enne Balotelli, le prime volte che si allenava con la prima squadra dell’Inter in uno dei suoi attimi di umiltà francescana proferì al veterano Hernan Crespo: «Se giochi tu in Serie A, io posso campare di rendita». Il suo unico punto di riferimento, non ha miti, è Zlatan Ibrahimovic, del quale prova a emulare, con un approccio quasi indolente, strafottenza e numeri di alta scuola, ma riuscendoci sempre a metà. Per questo probabilmente Mario non ha ancora espresso a pieno quel potenziale che si vede che c’è, ma rischia di rimanere sepolto sotto un fascio di muscoli nervosi che producono caos e malessere generale. Mourinho gli ha staccato la stima. «Mi ricorda tanto il giovane Cassano che allenavo io», lo assolve il Trap. Quel Cassano, però di fatto bruciò almeno 5 anni, un terzo della sua carriera, prima di tornare ad essere protagonista nella Samp e in questa Nazionale. «Auguro a Mario di non fare tutte lo sciocchezze che ho fatto io», gli disse Antonio accogliendolo tempo fa a Casa Azzurri. Ecco, Mario dovrebbe imparare a sorridere un 10% di quello che ride Cassano, ma invece si trincera in un silenzio inquietante, rotto solo dalla musica solitaria di un’i-Pod, mentre con il muso che striscia a terra fugge via. Eppure anche in Polonia, abbiamo visto bambini impazzire per un suo autografo. Mario dinanzi a questi piccoli fans si scioglie, diventa calmo e curioso, come quella volta a Manchester che entrato in un college per sbaglio, poi ha fatto di tutto per visitarlo accompagnato dagli studenti, increduli. Il problema è che appena accenna quel sorriso, l’attimo dopo si rabbuia ed è pronto a lanciare petardi dal balcone di casa, o a vomitare tutto il suo rancore, per qualcosa che non torna nella sua mente confusa e infelice. E non bastano 4,5 milioni di euro a stagione (tanto gli passano gli sceicchi del Manchester City) per avere uno scampolo di felicità e tanto meno per aspirare a un Pallone d’Oro. Ma soprattutto non basta, ancora, per diventare un uomo vero.
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