domenica 5 settembre 2021
Anche dopo otto secoli l’insegnamento e il pensiero del fondatore dell’Ordine dei Predicatori si presenta di grande attualità in questa “modernità liquida”: il nuovo numero di "Luoghi dell'Infinito"
Timothy Radcliffe

Timothy Radcliffe - archivio

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In occasione degli 800 anni della morte “Luoghi dell’Infinito” dedica a san Domenico una monografia, firmata da eminenti studiosi e da personalità dell’Ordine dei predicatori. Gli editoriali sono a firma di fra Gerard Timoner III, maestro generale dell’Ordine domenicano, e della teologa domenicana Antonietta Potente. Hanno contribuito al numero, che approfondisce storia, spiritualità e arte domenicane: lo storico medievista Franco Cardini; il biblista domenicano Paolo Garuti; lo storico dell’arte Antonio Paolucci; Davide Pedone, priore del convento di San Domenico a Bologna; lo storico dell’arte Timothy Verdon; suor Maria Gloria Riva; Elena Malaspina, membro della Pontificia Academia Latinitatis; la filosofa Siobhan Nash-Marshall; la storica dell’architettura Maria Antonietta Crippa; il giornalista Giorgio Torelli; Gianni Festa, postulatore generale delle cause dei santi domenicani; il critico letterario Giuliano Vigini e infine Timothy Radcliffe, già maestro generale dell’Ordine, di cui anticipiamo qui un ampio stralcio del suo contributo sull’attualità di san Domenico.

Che cosa ci dice oggi san Domenico? Si potrebbe pensare che, ottocento anni dopo la sua morte, egli abbia poco da offrire a noi, oggi, cittadini del mondo digitale del XXI secolo. San Domenico apparteneva a quel periodo che l’Illu-minismo europeo chiamava “i secoli bui”, un’epoca, si pensava, di superstizione e autocrazia, di Inquisizione e Crociate. Eppure le sfide che san Domenico si trovava ad affrontare non erano diverse da quelle di oggi e, per questo motivo, i suoi insegnamenti sono ancora rilevanti. Le città all’epoca di san Domenico erano in gran subbuglio. I vecchi rapporti del feudalesimo si stavano indebolendo. La cultura della deferenza era in declino. Mercanti come il padre di san Francesco d’Assisi viaggiavano in tutta Europa e anche oltre. Vi era una mini globalizzazione in atto. Era possibile incontrare gente straniera. Idee nuove circolavano nelle università, nate nella prima metà del XII secolo. In questo mondo “fluido” le persone si facevano domande sulla loro identità. Anche il nostro mondo è in transizione. Le vecchie identità, costruite attorno alla famiglia, all’appartenenza a una comunità locale, alla religione e anche al genere sessuale, vengono, oggi, messe in discussione. In questo mondo anonimo del continente digitale siamo in costante rapporto con gli stranieri. Le identità non vengono più ereditate, come capitava in passato, ma sono spesso scelte. Il “sogno americano” può essere quel che chiunque desidera. Sul web le persone hanno spesso identità plurime, levigate ed etichettate, come piace a ciascuno. Così la domanda che molti si pongono è: “Chi mi piacerebbe essere?”. Nel mondo che Bauman chiama “la modernità liquida” i rapporti con gli altri sono spesso fonte di incertezza e di ansia. Quei domenicani e francescani di quasi mille anni fa ci hanno offerto un tipo di identità nuova e insieme antica, che parla anche a noi uomini di oggi. Erano frati, “ fratres”, che significa “fratelli”. Per san Domenico le sorelle venivano al primo posto. Domenico, un canonico e un sacerdote, si è sempre fatto chiamare “Fratello Domenico”. Ha rifiutato qualunque status, anche quello di grande fondatore dell’Ordine dei Predicatori. Era soltanto un membro della comunità, uno dei compagni. La sua prima biografia è contenuta nelle Vitae Fratrum (“Le vite dei fratelli”). E con l’antichissimo titolo cristiano di “fratelli” ha voluto indicare i membri dell’Ordine. Il domenicano Marie-Dominique Chenu ha spiegato che, ogni volta che vi è un ritorno della fede, riappare la parola “fratello”. «La parola tipica delle prime comunità cristiane ritrova il suo significato più vero. Le persone vengono chiamate fratelli o sorelle in un gesto di sfida verso le disuguaglianze sociali e con tutta la carica utopica di quelle parole. Il capo del gruppo dei domenicani, che arrivava a Parigi per la prima volta, veniva ancora chiamato, secondo le abitudini dell’epoca, “abate”. Entro tre mesi questo titolo veniva abbandonato e veniva chiamato “fratello priore”». [...] All’epoca di san Domenico vi era un senso emergente di fraternità universale. Oggi questo orizzonte cosi ampio è stato perduto. L’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti risponde proprio a questa sfida. Il pontefice scrive: «Antichi con-flitti, che pensavamo sepolti da tempo, ricominciano proprio oggi mentre esempi di un nazionalismo aggressivo, estremista, violento e miope sono in aumento. In alcuni Paesi un concetto di unità popolare e nazionale, influenzato da varie ideologie, sta dando vita a nuove forme di egoismo e a una perdita del sentimento sociale in nome della difesa degli interessi nazionali» (11). San Domenico e san Francesco ci chiedono di considerare gli stranieri come fratelli e sorelle. Il beato Giordano di Sassonia, successore di san Domenico, disse di lui: «Poiché amava tutti, era amato da tutti». La fraternità straripava naturalmente in amicizia e non è una coincidenza che i primi domenicani pensassero il nostro rapporto con Dio non in termini sponsali ma di amicizia. Questo era il cuore della teologia della Trinità di san Tommaso d’Aquino. «Nella carità siamo amici di Dio. Non ci può essere amicizia, nel senso pieno della parola, eccetto tra uguali – ma Dio ci ha reso suoi uguali». Così al mondo confuso e turbolento della città hanno offerto lo stupefacente dono di un’amicizia tra pari. L’amicizia con Dio veniva espressa nell’amicizia con gli altri, anche tra uomini e donne. Mentre stava morendo san Domenico ha ammesso che preferiva parlare con donne giovani invece di ricevere lezioni da donne anziane! Il beato Giordano di Sassonia ha intrattenuto la corrispondenza più ricca di parole d’amore del Medio Evo con una suora domenicana, Diana d’Andalo. Meister Eckhart, teologo e filosofo, era molto amico delle suore della Renania. Santa Caterina da Siena, domenicana laica del XIV secolo, fu all’origine di una vivace comunità di discepoli e amici, frati e laici, che si chiamavano i “caterinati”. C’è un enorme bisogno, oggi, di questo rapporto disteso e sereno tra i sessi perché i rapporti tra gli uomini e le donne sono stati caricati di ansia, della paura di essere dominati e manipolati, di accuse e rifiuti. Ho letto che in America i giovani maschi hanno sempre più paura di dare vita a relazioni con donne vere, lo vivono come un pericolo e si rifugiano nel mondo virtuale. La bella amicizia tra i fratelli e le sorelle domenicani delle origini ci mette in contatto con un’altra dimensione della loro comprensione di che cosa significhi essere umano, ovvero che siamo fatti di corpi e che i nostri corpi sono una cosa positiva. San Domenico ha fondato il suo ordine per predicare ai catari che erano convinti che il mondo materiale appartenesse a Satana e che la salvezza consistesse nella fuga dal corpo. Ma Tommaso d’Aquino disse una frase famosa: “Non sono la mia anima”. La vita sacramentale consacra i momenti cruciali ma anche la quotidianità della vita umana: nascita e morte, cibo e bevande, sessualità e malattia. Questo approccio rappresenta una liberazione per la nostra società nella quale il corpo viene considerato con ambiguità.

(traduzione di Silvia Guzzetti)

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