venerdì 24 maggio 2013
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«Lazio non Lazio», così Folco Quilici definì l’alta Tuscia nei suoi indimenticabili documentari "L’Italia vista dal cielo": un paradosso che si riflette nella fisionomia del territorio, incuneato tra Toscana e Umbria, assimilabile né all’una né all’altra, ma simile in qualche misura a entrambe, restando comunque Lazio, terra dei papi. A occidente la Tuscia prolunga la suggestione maremmana; a oriente è accentuato il carattere vulcanico dei colli laziali, dove il verde si adagia su letti di tufo e di argilla. I paesi si ergono su rilievi di pietra scura e franano talora, come Civita di Bagnoregio, dove nacque San Bonaventura. Altrove guardano, come da un olimpico osservatorio, la distesa tranquilla del lago di Bolsena. L’alta Tuscia è questo insieme di diversità ambientali, che si fondono in un paesaggio umano unitario, silente e a tratti misterioso, in cui si riflette il senso della storia. Proceno, Grotte di Castro, Gradoli, Valentano, alcuni dei suoi piccoli comuni, gioielli medievali, con i castelli merlati e le rocche gigantesche. Qui dove gli Etruschi e poi i Romani avevano dato vita ad alcune delle loro città più conosciute, come Vulci e Volsinii, i Farnese custodirono la fede guelfa. Qui è il passaggio della via Francigena. Ricalca in parte l’antica via Cassia, provenendo da Siena e puntando a Roma. Bolsena, sull’omonimo lago, è stata teatro di un doppio miracolo. Il primo è degli albori della Chiesa. Nel 292 santa Cristina, giovane fanciulla romana, fu gettata nel lago con una pietra al collo per ordine del padre. Ma la pietra galleggiò, miracolosamente, la donna fu salva. Ancor più celebre è il secondo miracolo. È il 1262. Pietro di Praga, tormentato prete boemo, aveva dubbi sul dogma della transustanziazione. Ma a Bolsena, presso la tomba della santa, nel dire messa l’ostia gli si insanguinò tra le dita, bagnandogli il corporale. Da quel miracolo, papa Urbano IV prese spunto per istituire la festa del Corpus Domini. A nord è Acquapendente, la meta del nostro viaggio. Situata al termine della bancata vulcanica dei Volsini, fu città di frontiera dello Stato Pontificio. «È comunità di maturo spirito laicale e insieme di profonde radici religiose – dice il parroco, don Enrico Castauro –. Lo testimonia la festa della Madonna del Fiore, che rievoca, la terza domenica di maggio, la cacciata del rappresentante di Federico Barbarossa, avvenuta nel 1166 a opera della popolazione, dopo un miracoloso evento ascritto alla devozione mariana. La festa, detta dei Pugnaloni (spettacolari quadri realizzati interamente con foglie e fiori dagli artisti delle contrade locali e ispirati al miracolo), non è propriamente una rievocazione, ma la riaffermazione, dentro la cerimonia religiosa, della libertà come bene, come segno d’anima, spirituale e civile». La cittadina, accogliente, culturalmente evoluta (possiede due musei, un teatro, ed è centro della Riserva Naturale di Monte Rufeno, ove è un delizioso Museo del Fiore), è terra di raffinati artigiani e deve la sua origine a un borgo cresciuto lungo la via Francigena. Il suo attuale toponimo compare per la prima volta nelle cronache storiche in occasione del passaggio di Ottone I, sulla soglia del Mille. Ma già nell’VIII secolo San Wilibaldo accennava all’esistenza in loco di un sacello riproducente forma, dimensioni e orientamento del Santo Sepolcro di Gerusalemme, ove si custodivano pietre della colonna della Flagellazione, macchiate del sangue di Cristo. Oggi quel sacello dalla forma piramidale è nella cripta medievale a nove navate della omonima Basilica, consacrata nel 1149. Il sacello fu una delle mete privilegiate dai pellegrini della via Romea, quasi una nuova Gerusalemme. Discendervi dall’aula della chiesa più volte rifatta fino all’ultima settecentesca sistemazione, è come immergersi nel più profondo Medioevo. La teoria degli archi raccorda nella sacrale penombra le 24 colonne sovrastate da capitelli decorati con figure di animali e piante. E può immaginarsi la interminabile schiera di pellegrini, che qui giungeva da tutt’Europa, dopo viaggi di mesi a volte, per testimoniare la speranza. Uscendo si può prendere l’antica via Roma ed esplorare la cittadina. A destra si intravede la Torre dell’orologio, residuo, secondo la tradizione, dell’antico castello del Barbarossa. Il Palazzo Vescovile col museo civico-diocesano, che contiene una pregevole collezione di ceramiche di antiche manifatture locali, è a pochi passi. Più oltre è il complesso di Sant’Agostino. Proseguendo si può giungere a San Francesco (dove nel chiostro ha sede la Pinacoteca Comunale) e al monastero benedettino di Santa Chiara, costeggiando palazzi di antica nobiltà, come il Fidi e il Viscontini. Tagliando lateralmente si giunge in piazza Girolamo Fabrizio, il famoso anatomista amico di Galileo Galilei, dove è l’imponente, ottocentesco Palazzo Comunale. Più oltre è il Teatro Boni. Mura castellane cingono infine parzialmente il borgo, al cui interno sono molte botteghe artigiane, soprattutto di sarti e restauratori. Oltre, verso la Toscana, il paesaggio si fa incantevole. Del resto la strada per Siena è stata definita una delle più belle d’Italia.
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