martedì 29 aprile 2025
Un saggio a due voci riflette sulla Creazione.Erri De Luca in modopoetico si interrogasulla notte e la luce. EdHaim Baharier ricorda:«Il sapere scientifico "marmorizza" l'universo»
La Genesi, cosmo di particelle e parole

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Pubblichiamo ampi stralci del primo capitolo del volume La Genesi (Feltrinelli, pagine 160, euro 15,00; in libreria da oggi) opera realizzata a quattro mani dallo scrittore Errì De Luca e dallo studioso ebreo francese Haim Baharier. Due voci, due modi di leggere la scrittura sacra. De Luca, che si è cimentato in passato nella traduzione di testi biblici, narra la Genesi con la forza della letteratura, Baharier ne esplora i significati nascosti, attraverso la profondità della tradizione esegetica ebraica. Un dialogo tra parola e interpretazione, tra poesia e studio, tra racconto e ricerca del senso. Un libro che riporta la Scrittura alla sua essenza più viva: essere letta, interrogata, riscoperta. Il capitolo che anticipiamo è incentrato sui primi versetti della Bereshit: «Al principio, il Creatore aveva creato i cieli e la terra».

di Erri de Luca

Si accamparono fuori del portone. Avevano portato le loro spiegazioni, i commenti all’espressione “tohu vabohu”. Rimasero in attesa di essere ammessi a discuterla. Studiavano aspettando, aspettavano studiando. Davanti all’ingresso un guardiano vigilava e non rispondeva alle domande. Kafka aveva scritto di uno di loro, in un racconto senza lieto fine. Erano molti i commentatori, un accampamento. Venne l’ultimo, il più giovane, infervorato e insolente. Disse che la loro attesa era tohu vabohu, che ogni attesa lo è.

Si erano accaniti intorno alle varianti di ciò che è informe e vuoto. Ma come poteva essere tale la terra dopo la creazione eseguita dal verbo barà di El(o)him? Non percepivano il blasfemo di tali traduzioni? E poi solo la terra e non i cieli?

Certo, era buia la terra, non per questo vuota, informe, imperfetta. Era buia davanti all’abisso/tehom. Sì, tehom era abisso, ma quale? Ce n’era uno solo, quello dei cieli, al di sopra e non al di sotto della terra. C’era abisso intorno, il solitario abisso della forma universo.

Gridava passando nell’accampamento senza nessun segno di presenza. Gridava lo stesso. Non c’è nessuno di là dal portone. Non c’è ammissione. C’è solo il guardiano. Non lo riconoscete? È il Nòtzer haAdàm, ben conosciuto dal vostro Giobbe/Iiov. Imperfetta la terra, dite, un semilavorato? Bestemmie: era forma compiuta. Tohu vabohu è stato di fermento. Sono le convulsioni del continuo accadere perché è a forma di vortice il creato, in presenza di El(o)him.

La voce che irrompe, il vaiomer, proviene da fuori. La voce che annuncia la luce, lo fa dall’esterno, dall’oprichten goles, dal volontario esilio. La luce è la sua ombra proiettata da fuori. La luce è l’irradiazione della divinità che si è scaraventata dall’infinito. Ieì or non riguarda il creare. Comporta il verbo essere, la congiunzione tra creatore e opera. L’accampamento dei venuti prima era spento. Nessuno poteva ascoltare. Erano arrivati al termine del tempo dell’attesa, che è tohu vabohu, dove si sta in presenza del guardiano. Oltre regna la polvere, ultima consistenza, che non si annienta, si solleva in mulinelli e si accoppia al vapore delle nuvole.

Se sono l’ultimo, sono lo Shabbàt, ultimo di una scansione del tempo in sette parti. Sono separato dalle altre sei. Ignoro il giorno che mi ha preceduto. Del seguente, nego che provenga da me. Sono arrivato qui al termine del sole, per stare dentro l’immensa notte che fa da congiunzione tra superficie e cielo. L’immensa notte che prescrive le veglie e tiene insieme le acque di sotto con quelle di sopra. A chi incredulo chiede dove sono quelle superiori, rispondo che si trovano ovunque. Molto prima di me l’hanno saputo: l’idrogeno, il gas dell’acqua, è pure il più diffuso e sparso nell’incalcolabile universo. I cieli sono fatti della stessa materia delle nostre cellule. In questa notte di ultimo arrivato sento l’intimità fisica, il fervore con le distanti stelle. Alcune sono estinte, ma non la loro luce in viaggio attraversando a precipizio le galassie.

Non senti anche tu, invisibile e ovunque, l’entusiasmo dell’idrogeno in te che si risveglia nelle notti all’aperto? Esci dalle capanne, dai palazzi, lascia che il gas legato con l’ossigeno ti spalanchi i pori. Non servono altri sensi a percepire. Serve quello nervoso, reticolo di fibre elettriche sottopelle. Serve il tatto che si fa sfiorare dal pulviscolo delle meteoriti. La terra è sotto spargimento di un seminatore. Sono venuto per la notte, che sta tra “vaieì èrev”, e fu sera, e “vaieì bòker”, e fu mattino. Sono qui per ricevere haTorah. Se sai contare sai che la sua cifra è 616, la stessa di “vaieì èrev vaieì bòker”. HaTorah ha bisogno della notte, rotolo di cieli dispiegati. All’alba mi dileguerò con i fantasmi. 616 è anche “Iòter”, di più, parola che irrita Kohèlet sette volte. Dubita di questo supplemento. Iòter e haTorah: sciogli la coincidenza, fammi da scintilla di una notte di agosto.

di Haim Baharier

Prendendo spunto da Bereshith/Inizio, una premessa, un inizio prima dell’inizio. A pochi giorni dalla conclusione della lettura annua del rotolo viene nominato il fidanzato della Torah che sarà chiamato a leggere la fine dell’ultima pericope. Ugualmente si elegge il fidanzato di Bereshith che avrà il compito di leggere l’inizio della prima pericope la settimana successiva. Entrambi offriranno un rinfresco dopo la tefillah/preghiera. L’ultima parola della Torah è Israel, di cui l’ultima lettera è lamed (da sottolineare che lamed significa “studio” ed è l’unica lettera dell’alfabeto ebraico che si eleva sopra le altre). La prima lettera della Torah è la beth che dà origine alla parola Bereshith. Se uniamo lamed con beth otteniamo la parola l(e)b, che significa “cuore”. Non è concepibile studiare la Torah senza coinvolgere il cuore. Non vi è inizio né fine allo studio della Torah.

E ora iniziamo. Dal primo vaIomer/«Disse» perso nei limbi del non essere ha inizio l’esilio volontario del Creatore. Da precisare che il Creatore, El(o)him, non è ancora la Shekhinah, la Clamorosa Assenza, che si manifesterà al termine del racconto dei sei giorni dell’opera. Una domanda: come ha potuto Colui che agisce la libera scelta per eccellenza costruire un mondo determinato, la gigantesca prigione del conoscibile? Lo Sefat Emeth sussurra che i saggi percepiscono tutt’altro: la Torah trascende il creato che diventa la testimonianza della Sua Clamorosa Presenza. Non credo che sia un portone a chiudere l’universo, è la sua conoscibilità scientifica che lo marmorizza. E arriva la Torah, con le sue parole di quotidianità essenziale illumina la presenza presente e spalanca la prigione delle due particelle connesse, considerate inseparabili anche se divise da distanza infinita dal teorema di John Stewart Bell, fisico quantistico.

Il vaIomer segue lo tzimtzum, l’autolimitazione, che rappresenta l’intento, il potenziale del creare, mentre il creare in sé è l’appropriarsi dello tzimtzum, di questa possibilità, farlo surfare tra le onde del creare perché possa rinascere la Presenza. Durante quei sei giorni il Creatore ha preparato la natura secondo un disegno evolutivo, intellegibile e perenne che gli consenta sia di ritirarsi nella Sua Shabbath sia di donare anche all’uomo, ultima sua creazione, la libera scelta. Intento lodevole, ma per l’uomo di difficile applicazione. Come far coesistere la dignità della propria libera scelta, anche soltanto nella prigione del quotidiano, col sapere assoluto del Creatore? La risposta la si può trovare nel tempo tra il riposo e il feriale, che vela scienza e conoscenze. (...)

Non dimenticherò mai quel tempo in cui ero un accanito fumatore; mi concedevo di fumare l’ultima sigaretta nei dieci minuti del tempo vago 1, dopo l’accensione dei lumi della Shabbath. Purtroppo nel tempo vago 2, che allunga di dieci minuti la Shabbath, niente sigaretta e nervi a fior di pelle... La prima modalità divenuta evidente con lo Iehì Or/Sia Luce, concede spazio illuminato e illuminante all’altro da sé del divino. È generosità espressa per e nel distacco. La seconda si ispira al principio di dissociazione dall’opera per farla sussistere. Si tratta della Shabbath. Oprichten goles significa “svolgere l’esilio” o “recitare l’esilio” senza connotazione ironica. La gematria, l’energia numerica del verbo bara/creare, è 203, la stessa della parola ger, straniero, esiliato.

Quando Yoseph chiama suo padre e gli dice: «Vieni! Raggiungimi in Egitto!», Yaaqob è scettico. Vorrebbe confermare che il mondo, totalmente dipendente dalla volontà del Creatore, possa coesistere con il libero arbitrio degli uomini. Non si va in esilio perché chiamati. C’è la carestia, il nemico per eccellenza, Yaaqob vuole, deve uscire, ma aspetta la conferma della volontà di HaQadosh Barukh Hu, il Santo Fonte di Benedizione.

Yaaqob si avvia. Si ferma alla frontiera, a Bersheva. Aspetta un segnale. Il testo dice che El(o)him gli appare in una visione notturna – che non è né sogno né notte, piuttosto visione nebulosa, negativa – e gli dice: «Vai, scendi». E aggiunge: «Io scendo con te». Il commento tradizionale lo interpreta con una connotazione consolante: “Sarò con te in esilio”.

È El(o)him che accompagna Yaaqob. Il commento qabalista, invece, afferma che la presenza della Shekhinah, la Sua Clamorosa Assenza, in esilio, non può essere una buona notizia. È un momento di diminutio. Il rischio è che El(o)him del «verrò con te» diventi il Dio di una religione, al pari di tutte le divinità monoteiste. L’ebraismo non è una religione se vissuto in terra d’Israel, la terra del dono, la terra che non si può possedere.

Infine, El(o)him dice: «Tu risalirai, ricordati di portarmi con te, liberami dalle spoglie divine». La Torah per ben due volte rinnega Iòter, il “di più”, e ribadisce riguardo alla propria natura: «Non aggiungere e non togliere». E poi arrivi tu, ragazzo: e se sei davvero infervorato, insolente, e solo se lo sei, allora non sei altro che il Mashìah ben David, Messia discendente dire David. Credi forse nel risarcimento di venti e passa secoli di antisemitismo feroce? Tu, giovanotto, sei finalmente un israeliano, un israelita sulla terra del dono. Dono: terra, questa, donata. E i popoli non lo sopportano, non lo possono accettare. E tu devi dimostrare che esisti, che ci sei, che sei. Nonostante tutto sia stato deciso molto prima di te. Propongo un aneddoto midrashico per legittimare ermeneuticamente il fervore arrogante del Messia. Tziporah, moglie di Moshè, si confida con Miriam, sorella di Moshè, lamentandosi di non essere più desiderata sessualmente dal marito, entrambi alla soglia dei novanta... Miriam rimane basita: suo fratello non è forse il Messia tanto atteso che, arrogante, dovrebbe poter fare all’amore con la compagna e ricevere la parola di El(o)him contemporaneamente? Miriam interpella Aaron, fratello maggiore, pratica così la malalingua. La halakhah/regola stipula che una confidenza riportata a una terza persona diventa pettegolezzo. Per questo Miriam verrà sanzionata con la piaga della zara’at/psoriasi e confinata fuori dall’accampamento. Moshè, che non si considera e non professa di essere il Messia, andrà a consolarla e a pregare per la sua guarigione: «Ti prego, El, guariscila, ti prego».

E torniamo a te. C’è un tempo che si può e si deve rispettare. Sappiamo che ciò che arriverà sembrerà una cosa ma sarà un’altra e sappiamo pure che alcuni se ne accorgeranno e molti altri no, perché l’arrivo del Messia nasconderà il cosiddetto retto percorso e devierà il cammino. Fino a quel momento Israel è stato creato per ricevere la Torah, da quel momento in poi la Torah sarà stata creata per essere ricevuta da Israel. È vero che il Kohèlet, il re Salomone, rimane in attesa di chiarimenti su quell’“in più”. Si chiede: ma qual è il valore aggiunto? Quello della morale, della bontà, di che cosa...? Se la Torah ripete per ben due volte: «Non aggiungere e non togliere», il Talmud rincara: «Aggiungendo, togli». (...)

Abbiamo ricordato che la tradizione qabalista e hassidica dice che il Messia risulterà arrogante. La questione di noi che lo ascoltiamo è di non con fondere ogni arrogante con il Messia. Il Messia da discendente del re David sarà da tutti riconosciuto e accolto. Forse è questo il messaggio qabalista e hassidico contenuto nell’aggettivo “arrogante”. È evidente, la Shabbath è stata data agli ebrei e non gli ebrei alla Shabbath. Il numero 616 mette insieme “fu notte”, “fu giorno” e “haTorah”. Bisogna rammentare che Manitou affermava che ogni volta che nella Torah si dice: «Vide che era bene» lo si dovrebbe tradurre come «Vide che era abbastanza bene», per poter passare al giorno seguente. Per l’entrata nella Shabbath il Creatore non vide che era bene o non valutò che era abbastanza bene e quindi non passò al giorno successivo. Al termine del sesto giorno il Creatore si ritirò e si fidanzò con la principessa Shabbath. (...) Iothèr è quel “di più”, mettere per togliere, che corrisponde alla ritrosia del Creatore e al suo fidanzamento. Quel ritirarsi di El(o)him lascia dei segni. Sono tracce, o scintille, di una vita umana, da raccattare nel tempo. Tracce o scintille che la Torah chiama Ad(o)nai. Le tracce sono l’Assenza Clamorosa di El(o)him. La vita umana consiste nel raccogliere queste tracce e riunirle alla loro essenza intrinseca. E sono proprio queste scintille che Noah’ utilizzerà per costruire l’arca.

Pubblicato in accordo con Carmen Prestia Literary Agency, Torino

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

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