mercoledì 20 febbraio 2019
Sello Hatang, presidente della fondazione intitolata al leader sudafricano e suo collaboratore, chiamato a portare avanti le sue battaglie politiche e sociali: «Ci diceva di lottare per la giustizia»
La forza di un uomo chiamato Mandela
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«Mandela ripeteva sempre che era stata la speranza a dargli la forza di continuare a lottare. Se lui non l’ha persa in ventisette anni di carcere come possiamo pensare di perderla noi?». Sello Hatang è stato chiamato a dirigere la Fondazione Nelson Mandela durante gli ultimi mesi di vita del grande leader sudafricano, spentosi nella sua casa di Johannesburg il 5 dicembre 2013. Ha dovuto gestire la fase cruciale della sua scomparsa e poi si è dedicato anima e corpo al futuro dell’organizzazione che ha il compito di preservare e diffondere la sua gigantesca eredità politica, intellettuale e umana. Nei giorni scorsi Hatang è stato a Firenze, dove ha ricevuto le chiavi della città a conclusione delle iniziative organizzate in tutto il mondo per il centenario della nascita dello statista sudafricano. L’abbiamo incontrato al Mandela Forum, la struttura fiorentina che anni fa è stata intitolata al Premio Nobel per la pace, e al cui ingresso è stata riprodotta in vetro la cella del carcere di Robben Island dove l’ex presidente trascorse gran parte dei suoi anni di prigionia. Poco più che quarantenne, Sello Hatang è oggi uno dei simboli del riscatto del Sudafrica: originario di una famiglia poverissima, ha da sempre un rapporto molto stretto con la Chiesa cattolica del suo Paese. «In gioventù ho studiato in seminario e stavo per prendere i voti», ci racconta. «Ma dopo la morte dei miei fratelli ho cambiato idea anche per aiutare mia madre a tirare avanti. Devo comunque la mia carriera alla Chiesa cattolica sudafricana, che ha finanziato i miei studi universitari». Hatang prima di arrivare alla Fondazione ha lavorato alla Commissione per la verità e riconciliazione, l’organismo presieduto dall’arcivescovo Desmond Tutu che fece luce sulle violazioni dei diritti umani commesse durante l’apartheid con un modello di giustizia inedito, fondato sull’ascolto delle vittime e la concessione dell’amnistia ai carnefici.

Com’è cambiata la vita della Fondazione dopo la morte di Mandela?

Nelson Mandela è stato un sognatore, la cui visione lungimirante ha cambiato il mondo. Ci diceva sempre che per preservare la sua eredità morale avremmo dovuto legare le lotte del Sudafrica a tutte le altre battaglie per la giustizia sparse per il mondo. A lungo la fondazione si è impegnata nella realizzazione di proget- ti educativi e sanitari ma poi ci siamo resi conto che era giunto il momento di concentrarsi sui temi della memoria e del dialogo. Gran parte della nostra attività è oggi dedicata alla conservazione e alla diffusione del suo gigantesco archivio di scritti. Mandela non ha mai usato un computer in vita sua, ha sempre scritto tutto a mano.

Qual è il bilancio conclusivo del centenario che si è appena concluso?

Non esito a definirlo un successo. Sia per la grande quantità e qualità di iniziative svolte in tutto il mondo ma anche perché le Nazioni Unite hanno dedicato all’eredità di Mandela ben due giorni di sedute dell’Assemblea Generale nel corso di un incontro per la pace che si è tenuto in concomitanza con il 'Mandela Day' (il giorno del suo compleanno, il 18 luglio). Nel giardino del Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, a New York, è stata poi eretta una statua per ricordare il ruolo che ha avuto a livello internazionale. Francamente non potevamo davvero chiedere di più.

Purtroppo però la battaglia contro l’intolleranza e il razzismo sembra tutt’altro che vinta. Cosa possiamo fare per contrastarli?

Man mano che le richieste di uguaglianza si fanno pressanti, che cresce la necessità di offrire aiuto agli oppressi, più aumentano il razzismo e l’intolleranza, ma anche la xenofobia, il sessismo e la discriminazione contro gli omosessuali. Il proliferare di queste piaghe sociali ci dimostra che il mondo ha sempre più bisogno che ciascuno di noi faccia la propria parte per costruire una società diversa, più giusta. Puntiamo il dito principalmente contro i governi che trattano i migranti come invasori, che sono intenzionati a erigere muri e a chiudere le frontiere. Il riferimento agli Stati Uniti non è casuale, visto che da sempre Trump pensa più a dividere che a unire. L’ex presidente Obama la pensava invece in modo assai diverso, e ce l’ha confermato nell’intervento che ha pronunciato a Johannesburg, nel luglio scorso, in occasione del Mandela Day. Per costruire un mondo più giusto servono ponti, non muri e ciascuno di noi deve contribuire facendo del bene non come semplice atto di carità ma come atto di giustizia, per cercare di ridare dignità agli ultimi e agli oppressi. Leader politici come Trump riscuotono successo perché la democrazia e il capitalismo hanno mostrato i propri limiti nel risolvere certi problemi. La ricetta per venirne fuori è sempre la stessa, ovvero investire sull’educazione delle nuove generazioni.

È d’accordo con chi sostiene che il Sudafrica odierno ha tradito i sogni di Mandela?

Senza dubbio il mio Paese risente ancora di gravi problemi, a cominciare dall’alto tasso di disparità economiche e dalle carenze del sistema educativo, che non riesce a far crescere le giovani generazioni in modo consapevole. Purtroppo si fanno ancora sentire le scorie del lungo periodo dell’apartheid, che ha condannato all’analfabetismo una larga fetta della popolazione. E resta molto lavoro da fare anche nel campo dei diritti delle donne e dei minori.

Da alcuni anni, già prima che fosse guidata da lei, la Fondazione Mandela ha abbandonato il suo tradizionale ruolo apolitico e ha iniziato a criticare duramente l’ex presidente Jacob Zuma. Per quale motivo?

A causa della corruzione politica, uno dei principali ostacoli allo sviluppo del mio Paese. La presidenza Zuma ha portato nove anni di mediocrità e ha minato le basi dell’eredità di Mandela, non a caso di recente è stata istituita una specifica commissione incaricata d’indagare sulla corruzione nella classe politica sudafricana. La speranza è che le cose possano cambiare con l’attuale presidente Cyril Ramaphosa, ma è un problema complesso la cui soluzione non dipenderà dall’operato di una sola persona.

In conclusione non posso non chiederle un ricordo personale di Nelson Mandela.

A stargli intorno si percepiva un’aura di mito, si era quasi intimiditi dalla sua presenza. Lui però non si prendeva mai troppo sul serio ed era sempre sorpreso dal fatto che molti avessero soggezione di lui. Ricordo molto bene il giorno in cui mi ritrovai di fronte a lui poco prima d’iniziare a lavorare alla Fondazione, credo fosse il 2010. Mi chiese da dove venivo e io gli risposi che ero originario di una piccola township della remota provincia nordoccidentale del Paese. Gli dissi che molti anni prima era venuto a visitarla. «Certo che mi ricordo», fece lui, «e credo anche di averti notato in mezzo alla gente». Mi illusi di essere molto importante finché i miei colleghi non mi dissero che faceva così con tutti. E allora capii che far sentire gli altri al centro del mondo era un’altra delle prerogative dei grandi. © RIPRODUZIONE RISERVATA A colloquio con Sello Hatang, presidente della fondazione intitolata al leader sudafricano e suo stretto collaboratore, chiamato a portare avanti le sue battaglie politiche e umane «Ci diceva sempre che per preservare la sua eredità morale avremmo dovuto legare le lotte del Sudafrica a tutte le altre combattute per la giustizia nel mondo intero» Sopra, Sello Hatang, direttore della Fondazione Nelson Mandela A destra, un murale celebra Mandela a Città del Capo / Ap

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