domenica 24 settembre 2023
La crisi religiosa dell’Occidente ci interroga sul ruolo dei cristiani e chiede di lasciarci coinvolgere dall’essenziale promessa di Cristo. La riflessione del cardinale De Kesel
Il cardinale Jozef de Kesel

Il cardinale Jozef de Kesel - Epa

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Si può essere cristiane/i in un mondo che non lo è? Sì, sostiene questo testo del cardinale Jozef De Kesel, a condizione però di accettare, abitare e valorizzare il presente per quello che è, con il suo tratto irreversibile e con le sue promesse, con le sue perdite e le sue risorse, con le sue nostalgie e le sue speranze. Per queste tinte differenti e in contrasto tra loro, l’attuale orizzonte lascia presagire al contempo tempesta e sole, ma è proprio all’incrocio degli esiti che questo libro prova e invita a posizionarsi. Non vuole essere un ultimo e disperato tentativo di sopravvivere ai cambiamenti pagando il meno possibile, bensì un appello a riscoprire la vocazione pratica, realista e politica del Vangelo, in un mondo multiculturale e multireligioso che lo ha reso di fatto facoltativo, confinato nell’intimità del cuore umano e privatizzato in una forma psico- logico-morale indifferente alla giustizia dei legami e al bene comune.

Il cristianesimo ha smesso di essere una religione culturale e la cultura occidentale ha smesso di essere religiosa. A dire il vero nell’umanità il senso del sacro persiste e sostiene ancora diverse esperienze di spiritualità, ma quasi tutto accade nell’universo delle scelte libere e personali. Questo ripiegamento della religione nell’interiorità della fede si presenta come una forma di garanzia e di ospitalità verso le altre religioni, le altre confessioni cristiane, le posizioni agnostiche o atee, ma è un immiserimento. Lo spazio pubblico avrebbe un grande bisogno di voci religiose, delle profezie più coraggiose, delle speranze che non convengono solo a qualcuno, ma al mondo intero.

A questa rilevanza nella vita sociale nessuna religione dovrebbe rinunciare. In questo processo di distanziamento dal piano pubblico e istituzionale, il cristianesimo è stato molto più attivo di quanto si tende oggi a riconoscere: secondo i Vangeli, Gesù predicava una verità che libera dalla pressione del mondo. Tuttavia ciò non implicava certo un’abdicazione nella responsabilità spirituale verso il mondo. Facendo tesoro della sua esperienza nella Chiesa belga, l’autore si addentra in tutto questo con grande equilibrio, offrendo una lucida analisi e una sapienza della crisi che si è aperta in Occidente con la sfasatura tra la religione e l’orizzonte culturale. Non è tanto un problema di chiese vuote, ovviamente, ma di una trasformazione profonda delle culture, del sentire, delle pratiche di vita e dei contesti, di cui ora il cristianesimo è chiamato a tenere conto. È questa trasformazione complessa negata o mal abitata, a esporre il Vangelo all’inattualità.

Anche se tendiamo a dimenticarlo, il cristianesimo è una religione di origine straniera ed è una religione che si innesta in un’altra senza volerla sostituire. In questa prospettiva, rimarca De Kesel, ora non c’è nulla da riparare. Non si tratta del disfattismo di chi ha capito che la secolarizzazione è ormai irreversibile, ma della scommessa che ancora vi si possano leggere con entusiasmo i segni dei tempi. La secolarizzazione, allora, andrebbe intesa e trattata come un momento della storia che appartiene anche al cristianesimo. C’è stato un tempo in cui abbiamo erroneamente creduto che la versione sociologica del cristianesimo fosse il destino del Vangelo, l’approdo definitivo della fede, mentre ne era solamente una forma storica.

Il riferimento alla storia non suoni come un disvalore: mai come oggi è importante onorare la contingenza, per smarcarsi dai modelli passati nei quali andare in chiesa era normale, era un dovere e addirittura era la misura dell’essere/ non essere “praticanti” nella fede. Senza negare la crisi in cui versa il cristianesimo, né tantomeno assumere la scorciatoia apologetica, vittimista o demonizzante che ancora qualcuno si ostina a praticare, De Kesel propone un radicamento che non confonde evangelizzazione e cristianizzazione e che mira a riscoprire la promessa divina proprio nell’attuale orizzonte secolarizzato, attraverso le culture e la loro capacità di ospitare le differenze, di dialogare con le alterità, di prendersi cura dell’estraneità.

La tesi è chiara: non è detto che per il cristianesimo la perdita della fisionomia culturale sia l’inizio della fine, e anzi questa perdita potrebbe addirittura rivelarsi un kairos, un momento di storia della salvezza con espressività inedite e profetiche nelle quali finalmente sarà la vita a diventare importante. Se una cultura secolarizzata non è necessariamente una cultura in cui la religione è assente, vanno però cercate le mediazioni per una presenza altra del cri- stianesimo e si devono sollevare domande dirette come questa: quali saranno il futuro e la forma della Chiesa e della religione in un Occidente così trasformato?

È qui che l’autore si sbilancia nella proposta effettiva di un riposizionamento soggettivo, relazionale ed ecclesiale, grazie al quale il cristianesimo può lasciare nella storia un segno di cura e di amore solidale, secondo la propria differenza. Si tratta di rinunciare a monopo-lizzare la cultura, per riscoprire la natura umana come desiderio di una cultura abitabile, condivisibile, solidale e per riscoprire l’inquietudine – non il possesso – della cattolicità. Ogni tensione verso l’unità, verso la comunione, verso l’universale, non è il titolo di una pienezno za raggiunta, ma il dono di un’incompiutezza che spinge e sostiene la contingenza in un continuo superamento e sbilanciamento verso il margine, verso l’altro, verso il mondo.

La missione cristiana, dunque, non coincide con la cristianizzazione della società né con il proselitismo. Si tratta piuttosto di sintonizzarsi con il desiderio divino di vita e di storia testimoniato da Gesù Cristo, e di restarvi fedeli anche quando le condizioni del mondo lo rendono implicito, invisibile, marginale, insignificante e irrilevante. Il cristianesimo è in esilio ma, come il popolo di Israele, è invitato a radicarsi nel deserto e ad abitare quello spazio scommettendo di nuovo sulle relazioni con Dio, con l’umanità, con un mondo tanto amato da essere già raggiunto dalla grazia. Tutto è accaduto perché avessimo la vita, e non per altro.

Questa narrazione della vita abitata da una promessa divina deve essere nuovamente raccontata nei modi, nei tempi e negli spazi che la storia offre. Occorre però lasciarsi istruire da un presente che è stanco di ipocrisie, abusi, manipolazioni seduttive, irrigidimenti, analfabetismi affettivi, clericalismi, infantilizzazioni teologiche, e che porta con sé il kairos della libertà più profonda e della parola più autentica di un Dio che non ha solo assunto la vita umana come spazio di rivelazione, ma che ci ha anche abilitato alla cura fraterna e sororale di quel mondo tanto amato. La secolarizzazione non provoca necessariamente il confinamento nell’interiorità o l’irrilevanza pubblica della fede, ma può diventare quel varco necessario per sottrarci a infauste coincidenze con i poteri di questo mondo.

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