venerdì 13 novembre 2020
Nel 1927, quando era stato rinchiuso in carcere dai fascisti, lo statista compose un album natalizio per la figlia Maria Romana che ora diventa un prezioso libricino
Una immagine tratta dal volumetto "Alcide De Gasperi. La vita di Gesù narrata alla figlia Maria Romana"

Una immagine tratta dal volumetto "Alcide De Gasperi. La vita di Gesù narrata alla figlia Maria Romana"

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L’albo che lega immagini della Palestina ritagliate da “The National Geographic Magazine” alle parole dei profeti raccontava la storia di Gesù a Maria Romana, di soli quattro anni, cercando di farle capire qualcosa dell’atmosfera di luoghi e tempi dove visse il Salvatore del mondo. Maria Romana oggi nella sua introduzione si rivolge al padre: un padre che non è più solo suo, ma di tutti gli italiani. Così come questo album non è più il suo privato dono di Natale, ma il volumetto Alcide De Gasperi. La vita di Gesù narrata alla figlia Maria Romana (Morcelliana, pagine 62, euro 20,00), una toccante edizione illustrata dalla quale anticipiamo stralci dei testi e alcune immagini.

Aprire questo album dopo tanti anni è stato per me come cercare nella storia del mondo le impronte del Signore pur senza vederne la figura. Come era? Assomigliava ai pastori dell’epoca? Noi cristiani lo descriviamo come desidereremmo fosse: diamo alle sue forme quelle del tempo nel quale viviamo, lo dipingiamo con i colori del nostro mondo, lo costruiamo nel marmo, nel legno, nella creta e in qualunque altra materia possibile. La fede nelle sue parole ci suggerisce la sua forma terrena. Così nelle fotografie di questo album sono i pastori della Palestina del 1900 che ci propongono la figura del Nazareno e ci aiutano a credere che fosse passato duemila anni fa per le loro strade. Mio caro padre, attraverso le immagini di questa terra mi raccontavi la storia della tua fede, quella che ti aveva sostenuto nella lotta per la libertà del tuo popolo. Mi insegnavi cosa è la lealtà, il coraggio di sostenere le proprie idee, la fiducia nella giustizia e nella carità che avevano sempre illuminato la tua strada. Dietro di te c’erano i tempi della Prima guerra mondiale, i campi di raccolta del tuo popolo che non avevi voluto abbandonare. E finalmente c’era un breve tempo di pace tra le nazioni europee e la grande promessa di una ricostruzione. Ma tutto era caduto di fronte alla incapacità di collaborazione tra le forze politiche e alla violenza dei più forti. Perdesti anche tu la tua libertà e ti fu necessario cercare rifugio lontano dalla grande città di Roma dove eri conosciuto. Fuggire non fu facile. Le forze fasciste ti trovarono sul treno tra Roma e Firenze. Incominciò quel giorno la tua vita di prigioniero. Le lettere scritte da Regina Coeli (le prigioni della capitale) inviate a Francesca, la compagna fedele della tua vita, prima da dove eri detenuto e poi dalla clinica dove avevi dovuto riparare per la fragilità della tua salute, sono la strada per raccontare la storia di questo album che tu, padre mio, scrivesti per me. Avevo circa tre anni quando mi scrivevi: «Mia cara pupi, sii brava e prega tanto la Madonna per il tuo povero papà». La sofferenza di trovarti ingiustamente relegato in carcere ti faceva scrivere alla tua fedele compagna: «Prega e fa pregare perché io sostenga questa prova come vuole Iddio. Prima che la personalità si adatti entro codesta camicia ferrea del delinquente, dove i regolamenti ti costringono senza pietà, lo spirito ed il corpo emanano lacrime e sangue. Ma poi viene il soccorso di Dio nel quale si riposa». Il tuo avvocato ti aveva assicurato che avresti ottenuto la grazia, e quando finalmente nel maggio del 1927, dopo tre mesi di detenzione fosti trasportato al Palazzo di Giustizia, assieme ad altri prigionieri, eri sicuro di aver ottenuto la libertà. Ma quale delusione quando, con le mani legate alle catene, fosti riportato alle carceri: ti avevano condannato a quattro anni. «Non potei nemmeno piangere », scrivi, «mormorai solo il nome di Dio».

Molte sono le lettere della tua storia di prigioniero che la mamma riuscì a conservare assieme a quelle che scrivesti a me: «Cara Maria Romana, sei stata in processione bianco– vestita. Ti ricordi il Faro, quella luce bianca, rossa e verde che vedevamo assieme dalla terrazza? Non la vedo dalla mia finestra, ma ci sono vicino e vedo i giardini. C’è dentro un usignolo e la sera quando canta penso a te, e la notte quando, basso all’orizzonte, vedo una stella penso a te e a Lucia. Quando andate in chiesa pregate così: “Mio Gesù ti ringrazio perché sei buono con papà”». Non sapevo allora del tuo destino di prigioniero e credevo, come mi avevano raccontato, che fossi lontano per lavoro. Mi leggevano parte delle tue lettere solo quando parlavi di me o di cose serene. Nel tuo animo e nella tua fantasia cercavi la libertà con l’inganno di immaginare presenti i boschi che circondavano la nostra casa di Sella e allora ti sfogavi così: «io non posso immaginare Sella che nel sole e rivedere i miei quarzi scintillanti nell’acqua d’argento laggiù nell’opaca valletta dell’orso, come l’oro dei Nibelungi nel fondo del Reno, smarrirmi solo e libero nel silenzio del bosco, re immaginario di un immaginario regno poi salire alla superficie verde ed ondeggiante come un lago, scorgendo di lontano quali due corolle vive... i due fiori delle mie bambine». Ma le mura erano scure e un giorno attraverso lo spioncino il gendarme ti vide scrivere sulla parete della tua cella con uno spillo che era sfuggito alle varie persecuzioni corporali: « Beati qui lugent quoniam ipsi consolabuntur » («Beati quelli che piangono perché saranno consolati»). [...] Ed ecco il dicembre del 1927. Volevi farmi un regalo per il Natale, allora ritagliando da una rivista inglese che avevi ricevuto alcune fotografie della terra d’Israele, mi raccontavi nel modo più vero la storia di Gesù.

Pensavi a me che con l’aiuto di questi scatti avrei dovuto immaginare la storia di quel bambino che nei futuri giorni di festa avrei visto nelle chiese, nelle case, tra gli amici. Volevi dare alle tue parole il colore della verità dei luoghi e del tempo senza costruire una visione irreale di angeli inventati nel loro aspetto, ma farmi scoprire ciò che la terra d’Israele aveva lasciato sopravvivere ai secoli passati. Più tardi nel tempo abbiamo sentito il bisogno di conservare per il futuro ciò che crediamo sia rimasto degli anni di Cristo e lo abbiamo chiuso tra le mura perché sia più facile leggerne la storia. Le alte pareti, i vetri delle finestre che si confondono con i colori del tramonto e dell’alba, la gente che passa da un piano all’altro, dal posto del Suo cammino a quello della Sua passione, tutto vicino, quasi fosse necessario avere un riassunto veloce del Suo passaggio sulla terra. Tu invece hai cercato di farmi vedere la realtà di un luogo dove la povertà e la speranza nel Dio dei cieli avevano lo stesso modesto colore e mi racconti ciò che la terra d’Israele nei primi anni del Novecento ancora conservava senza le iniziative dell’uomo. Tenni per me questo album per infiniti anni, finché oggi penso sia giusto far conoscere di te, padre, la profondità dell’animo, la sincerità della tua fede, il desiderio di trasmettere a noi come e dove cercare la verità. Posso immaginare la difficoltà di ritagliare, incollare, e mettere assieme queste pagine di fotografie, ognuna con il tuo commento in italiano, lo scritto della rivista in inglese e spesso con il soccorso del latino. Era il Natale del 1927 ed io non sapevo ancora leggere, ma ascoltavo la voce di mia madre che seguiva le righe scritte da te: «Sono passati ormai centinaia e migliaia di anni...».

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