sabato 18 novembre 2023
Un bilancio critico del capolavoro di Italo Svevo. Dalla penna dello scrittore triestino un’analisi impietosa sul crollo della civiltà borghese nel ’900. Che interpella anche l’oggi
Italo Svevo

Italo Svevo - Massimo Dezzani

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Questo 2023 segna un anniversario importante per la storia della letteratura italiana, una ricorrenza però passata quasi inosservata, se non a Trieste e dintorni: i cent’anni dalla pubblicazione del capolavoro di Italo Svevo (1861-1928), La coscienza di Zeno. Il libro, uscito nel 1923, è il terzo romanzo scritto da Svevo dopo Una vita (1892) e Senilità (1898), che non avevano incontrato molto successo. Lo scrittore triestino aveva così deciso di lasciar perdere la letteratura. Alcuni anni dopo, però, succede qualcosa che lo convince a ripensarci. Nel cuore della Grande guerra, la fabbrica di famiglia, che negli anni precedenti aveva realizzato profitti altissimi vendendo vernici alla Marina austriaca, viene chiusa dalle autorità tedesche. Svevo si ritrova così a poter coltivare le sue passioni: il violino e la scrittura. Può dunque metter mano al progetto di un nuovo romanzo, La coscienza di Zeno. Il libro viene pubblicato, come i precedenti, a spese dell’autore. Stavolta sembra che la critica si accorga di lui, escono alcune recensioni favorevoli, ma poi cala di nuovo il silenzio. Svevo allora si decide a un’ultima mossa: vincendo la propria ritrosia, spedisce una copia del libro a James Joyce, che è a Parigi e si attiva subito per far conoscere ai suoi amici l’ignoto scrittore.

Svevo aveva incontrato l’autore irlandese nel 1905, quando, ventitreenne, Joyce era insegnante alla Berlitz School di Trieste. Joyce gli aveva dato lezioni di lingua inglese, ma poi il rapporto tra docente e studente si era trasformato in amicizia. I due avevano letto reciprocamente le loro opere: l’italiano i racconti della raccolta Dubliners (Gente di Dublino), ancora manoscritti; l’irlandese i primi due romanzi sveviani, dal secondo dei quali, in particolare, rimane folgorato («Ci sono dei passi in Senilità che neppure Anatole France avrebbe saputo fare meglio», aveva scritto). Come un addetto stampa personale, Joyce fa leggere il libro a letterati, critici, giornalisti, mentre anche in Italia la cortina del silenzio comincia a cedere. Anche qui il merito è di un amico influente, Eugenio Montale, a cui Svevo e la sua opera sono state segnalate dall’intellettuale triestino Bobi Bazlen. Ma è a Parigi che il passaparola è contagioso e il “caso Svevo” cresce giorno dopo giorno: a suggellarlo è la lettera ossequiosa di Valery Larbaud, autentica autorità delle lettere francesi, il quale nel 1925 scrive a Svevo da «devoto ammiratore » che omaggia un «Maestro». Per Svevo è un crescendo di emozioni: sulla sua scrivania arrivano articoli riverenti, omaggi, addirittura numeri monografici di riviste dedicate alla sua opera, contratti di traduzione in francese dei suoi libri. Lo scrittore, tra il serio e il faceto, parla di un “miracolo di Lazzaro”: una resurrezione, letteraria ma anche esistenziale, che lo porta a una seconda, imprevista giovinezza. Nel 1927, a Parigi, il Pen Club organizza una serata in suo onore; l’anno successivo, a Firenze è accolto trionfalmente da un gruppo di intellettuali che si fa chiamare “Svevo’s club”: tra questi, figurano Montale ed Elio Vittorini.

Sono mesi di felicità, ma anche di strani presentimenti: un enfisema polmonare, conseguenza della sua lunga carriera di tabagista, lo inquieta al punto da fargli dire: «Dopotutto posso morire perché sono stato assai felice». Nel settembre del 1928 è in vacanza a Bormio, in Valtellina, per le consuete cure termali: al ritorno a casa, l’automobile, su cui viaggia insieme alla moglie e a un nipote, slitta sul terreno bagnato, sbanda e si schianta contro un albero, nei pressi di Motta di Livenza, non lontano da Treviso. Svevo è ricoverato nell’ospedale della cittadina veneta, dove muore il giorno dopo.

Ma a distanza di un secolo, quale lettura possiamo dare della Coscienza di Zeno? La critica ha ormai da tempo inquadrato quest’opera come uno dei massimi esempi di romanzo modernista in Italia. È forse il romanzo italiano che più di ogni altro rappresenta la crisi di certezze e di valori tipica dei primi decenni del ‘900. Il suo protagonista è un testimone esemplare della dissoluzione dei fondamenti filosofici su cui si era basata la civiltà borghese del secolo precedente: intossicato dal fumo, debole e suggestionabile, soffre in realtà di un male tutto interiore, di una sorta di patologia della volontà che tenta di vincere ripercorrendo le pieghe oscure dell’inconscio, illuminato (ma solo fino a un certo punto) dalla psicanalisi freudiana. L’impianto della narrazione, la struttura, il trattamento del tempo e la posizione del soggetto di fronte alla realtà sono concepiti in modo da rendere l’interpretazione problematica e aperta. Non incontriamo più, come sarebbe potuto avvenire in un romanzo realista ottocentesco, una voce esterna che smaschera e corregge le menzogne del protagonista, che lo mette a nudo e lo giudica, ma ci troviamo di fronte all’ambigua confessione di un soggetto che intreccia nelle proprie affermazioni verità e bugie, false interpretazioni e menzogne volontarie, secondo il flusso mobile e imprevedibile della propria coscienza. Zeno confeziona così, mediante un tortuoso itinerario nella memoria, un’indagine introspettiva per illuminare i moti oscuri di un’anima ormai irrimediabilmente corrosa: nel risalire alle radici del proprio io, rivela allo stesso tempo la natura fittizia della cosiddetta “normalità” e le falsità e le ipocrisie che caratterizzano l’ordine borghese. Nessun risarcimento balena nel mezzo di questa “cognizione del dolore”: Svevo non insegue miti né inventa alternative che riscattino gli uomini dalle loro insicurezze; anzi, pare divertirsi nell’affondare il coltello nella piaga e nel dare di essi un’immagine sgradevole e per nulla edificante.

Anche oggi viviamo in un’epoca in cui la società appare spesso tentata di affidarsi a esempi o valori consolatori e, almeno in parte, ingannevoli. Proprio come quella del tempo di Svevo, quando i lettori lo hanno troppo a lungo ignorato: allora più disposti a sognare con gli eroi dannunziani o a celebrare le chiassose intemperanze futuriste che non a specchiarsi nelle pagine di un uomo comune. Il quale, esplorando sé stesso, ha messo a nudo, impietosamente, le nostre contraddizioni e le nostre mediocrità. Per questo è un grande classico e insieme uno scrittore decisamente attuale.

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