La “Danza di contadini” di Pieter Bruegel, 1568 circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum - WikiCommons
Adriano Prosperi è il più importante storico del periodo della Controriforma, quindi di quel passaggio ineludibile per chi voglia capire gli intrecci tra teologia, società, politica e cultura nell’Età Barocca. La Controriforma, nelle periodizzazioni storiche classiche, va dal Concilio di Trento (1545-1563) sino alla metà o alla fine del Seicento; in realtà, la cultura, la mentalità della Controriforma ha avuto una durata molto maggiore, arrivando fino al Concilio Vaticano II. Cercare allora di comprendere che cosa accadde nel mondo cattolico prima, durante e dopo la Riforma di Lutero, Calvino e gli altri riformatori, è esercizio essenziale per una lettura della cultura di quelle società, incluso il capitalismo italiano.
L’ultimo libro di Prosperi (Paure e devozioni, Quodlibet, pagine 560, euro 32,00) è una raccolta di venticinque saggi sulle ‘paure e devozioni’ tra Rinascimento e Età moderna, scritti nell’arco di molti anni. Nella bella e utile Premessa al volume leggiamo: “Chiamiamo devozioni le infinite pratiche inventate nei secoli dalla società preindustriale per esorcizzare il male che incombe sulle vite umane, popolando col rimorso e con la paura lo spazio che separava il cielo dalla terra, i vivi dai morti” (p. 9). Devozioni e paure sono dunque due parole intrecciate. Le prime nascono come risposta alle seconde: si prega, si fanno opere di pietà, per gestire la paura della morte, della vita, degli spiriti, di Dio.
La pietà di cui parla Prosperi è soprattutto (anche se non solo) la pietà popolare, quel meticciato di cristianesimo e pietas ad esso precedente, quella romana di Virgilio ma anche quella dei popoli italici e dei molti influssi nordici e mediterranei, che divenne la pietas di Erasmo da Rotterdam (molto presente nel libro) e poi di Don Giuseppe de Luca. È quel modo di stare al mondo, di intendere la vita e quindi la religione come un cammino in continua compagnia di angeli e demoni, di santi e di madonne molto più presenti del Dio dei teologi; una esistenza trascorsa più con Crocifisso che col Risorto, bagnata da tante, troppe lacrime, che sono state il primo e spesso unico linguaggio della nostra gente e delle nostre donne, che con la loro fede illetterata e meticcia hanno salvato Dio dai teoremi dei teologi della Controriforma che immaginavano architettoniche divine troppo distanti per essere capite ed entrare nella vita - sia la pietà popolare che la teologia sono frutto di molta immaginazione, ma l’immaginazione della pietà popolare è stata di gran lunga più umana e vera. Nel libro ci sono molte donne, moltissimi contadini, molta arte, qualche prete, pochi teologi. Ogni capitolo è un gioiello. Alcune perle sono particolarmente luminose, una luce (per me) irresistibile.
Il primo saggio riguarda le ‘feste del Maggio’ nell’Appennino Tosco-Emiliano, dove Prosperi rivela già nella prima riga una sua ipotesi interpretativa generale: “Si può affermare ormai con sicurezza che l'età della Controriforma è stata una delle epoche di più aspro conflitto tra la cultura delle classi dominanti e quella delle classi popolari” (p. 15). Un conflitto complesso e complicato, che nasce essenzialmente da una tenace politica papale ed episcopale di provare ad educare un popolo ancora sotto molti aspetti pagano e che resisteva con forza a quella educazione religiosa che sentiva troppo lontana e non loro amica. Il Concilio di Trento, infatti, non fu soltanto una grande risposta alle eresie teologiche ed ecclesiologiche luterane; dovette affrontare “anche l’eredità del suo più recente passato, rimettendo in discussione ad esempio i rapporti instaurati col mondo magico e con le tradizioni precristiane” (Ibid.). Le critiche di Lutero (e degli altri riformatori) non toccarono soltanto alcune colonne portanti della teologia cristiana (la salvezza, il sacrificio, il sacerdozio …). Entrarono anche nel merito del culto, nella pratica delle indulgenze, della intercessione dei santi e della Madonna, nelle contaminazione tra religione e magia. Quindi la Controriforma non fu soltanto faccenda teologica. Fu anche un insieme di interventi pesanti nella vita una popolazione prevalentemente agricola che fino al Concilio di Trento era rimasta ai margini della formazione cristiana: “Tra le funzioni normali del sacerdote rientravano pratiche magiche e stregonesche” (p. 19). Tanto che quando i gesuiti raggiunsero alcune vallate del Sud e dell’Appennino, paragonarono quelle genti a quelle incontrate nelle Indie.
Prosperi ci mostra anche, con grande cura e talento che la Chiesa romana aveva da tempo iniziato una sua Riforma endogena, che proprio nei primi del Cinquecento stava raggiungendo il suo culmine nell’opera riformatrice di Erasmo, e poi di due nobili veneziani Tommaso (Paolo) Giustianiani e Vincenzo Guerini (poi divenuti monaci camaldolesi: pp. 465-483) che scrissero nel 1513 un Libellus per il nuovo papa Leone X (Medici) dove proponevano, tra l’altro, la traduzione e diffusione della Bibbia nelle principali lingue volgari, incluso l’Italiano (sebbene la prima bibbia in italiano fosse stata realizzata a Venezia nel 1471 per mano di Nicolò Malermi, monaco camaldolese e biblista). Questa riforma cattolica interna si scontrò duramente con la critica di Lutero: il 1517 è l’anno della pubblicazione delle 95 tesi di Lutero e la conclusione del Concilio Laternanse V. Quel processo intrinseco non solo fu profondamente condizionato e orientato dall’opera di Lutero, accadde anche qualcos’altro. Poiché le critiche di Lutero riguardavano molti dei punti già indicati da Erasmo e da molti altri come quelli da riformare urgentemente, dopo le 95 tesi chiedere quelle riforme divenne per Roma e per i suoi tribunali sintomo di potenziale adesione all’eresia luterana: “Il timido avvio del processo di riforma cattolica (con le sue analogie con quella protestante) fu bloccato. Il percorso della disciplina ecclesiastica nel mondo cattolico si differenziò da quello protestante. La causa è evidente: l'intervento dell'inquisizione romana, per il timore di infiltrazioni radicali, costrinse a cancellare ogni velleità di riordinamento delle pratiche devote e nei riti. Poiché la Riforma aveva criticato il culto dei santi e l'uso delle immagini devote, bisogna moltiplicare a dismisura i segni di devozione delle immagini. Davanti al pericolo della Riforma, la religione ufficiale impose un colpo di freno alle velleità di ‘purificare’ i riti e le pratiche tradizionali cancellando gli ingredienti che apparivano superstiziosi” (p. 246).
Ciò non significa dire che Trento fu soltanto una reazione a Lutero, che non tentò alcune riforme importanti sentite da molto tempo, né che le critiche protestanti non produssero dei cambiamenti anche sotto le Alpi. Prosperi ci guida all’interno di alcuni di questi cambiamenti e delle loro ambivalenze (sarebbe ingenuo pensare che una separazione avvenuta con quella violenza non avesse prodotto molti errori, alcuni molto gravi, in entrambi le parti della conflitto).
Tornando al Maggio, la tradizione affonda nelle origini della cultura italica e mediterranea, perché legata ai riti della fertilità e dell’amore, e quindi della giovinezza. Durante il Medioevo la Chiesa aveva tollerato queste feste, anche perché erano faccenda quasi esclusivamente agricola e nelle campagne la presenza della chiesa era molto scarsa. Si era limitata a ‘battezzare’ la festa pagana, e così il 1 maggio era, ancora nel 1516, “una duplice festa, per la ricorrenza di San Giacomo apostolo e per le forme tradizionali di corteggiamento amoroso che si svolgevano in quel giorno” (p. 27). In quel giorno, infatti, gli innamorati raccoglievano fiori e li portavano davanti alla porta della casa delle innamorate. Con la Controriforma, soprattutto nel Nord e in qualche regione del Centro Italia, il clima cambiò: “San Carlo Borromeo per la sua archidiocesi milanese nella seconda metà del secolo … invitò i fedeli atterriti dalla recente pestilenza a cancellare ogni usanza pagana e ogni atteggiamento verso la vita che risentisse di tradizioni non cristiane” (p. 28). Insieme a questa lotta c’era anche quella contro la ‘pazzia carnevalesca’ e altre feste pagane, inclusa quella “di piantare rami e fronde per le vie in mezzo alle piazze” a Maggio. Qui la soluzione fu “di erigere la croce al posto degli alberi pagani” (Ibid.). Prosperi però nota come questa azione del Borromeo “appare isolata”, perché in genere sull’Appenino Tosco-Emiliano (e, aggiungo io, in genere nell’Italia contadina) ci fu “la fusione tra riti della fertilità e culto della croce cristiana” (p. 30) - delle croci nei campi si parla anche nelle pagine 227 e ss. Infatti, “la battaglia intrapresa dal clero post-tridentino contro le feste del maggio si è limitata a divieti e condanne, a misure insomma di tipo negativo, non sempre seguite con molta convinzione. Mancarono invece proposte di devozione sostitutive, e se si esclude il caso del Borromeo in Italia le cose andarono diversamente; al posto del contrasto e della contrapposizione netta ci fu un abile sovrapposizione di forme cristiane alle tradizioni del mondo contadino. Ne furono autori gesuiti. Fu ad essi che si dovette l’idea di sostituire sistematicamente la Madonna alle figure femminili destinatarie dei vari riti di propiziazione della fertilità” (p. 33), fino a fare del Maggio il mese dedicato alla Madonna dove i fiori alle ragazze divennero i ‘fioretti’ a Maria.
Il tema del rapporto tra dimensione femminile e culto mariano è uno di quelli ricorrenti nel libro, e tra quelli più interessanti. In particolare, il capitolo Dalle ‘divine madri’ ai ‘padri spirituali’ contiene elementi utili per una storia delle donne nella Chiesa cattolica moderna. Parlando dei Monasteri femminili, che nella Controriforma conobbero un inasprirsi delle regole della clausura, Prosperi sottolinea che “l'intreccio delle immagini elaborate intorno al rapporto verginità femminile/nozze (con Cristo) mostra l'enfasi tutta particolare con cui si insisteva su questa specie di sbocco obbligato per le donne che non si sposavano” (p. 66-7) - - trovo ingenuo se non ideologico il tentativo di un certo femminismo cattolico di leggere anche la clausura della Controriforma come una forma di emancipazione femminile, che resta ancora un periodo molto buio che ancora attende che qualcuno chieda ‘perdono’. Il ruolo che la donna aveva nella trasmissione della vita, “forniva la cornice immaginaria di una speciale funzione femminile di mediazione fra cielo e terra, di accesso riservato ai tesori della sapienza divina” (p. 67). Al tempo stesso, alcune monache e laiche si trovarono al centro di quella domanda di rinnovamento spirituale che saliva da varie parti della cristianità, dalla devotio moderna alle ‘sante vive’, da Savonarola a Michelangelo, o a Lorenzo Lotto che prima di terminare la vita dipingendo nel Santuario di Loreto, aveva realizzato un ritratto di Lutero con sua moglie. Attorno ad alcune di queste donne (si pensi a Vittoria Colonna e più tardi a Caterina de’ Ricci e Maria Maddalena de’ Pazzi) si crearono delle vere comunità spirituali e culturali, dove le donne svolgevano anche la funzione di accompagnamento spirituale e di consigliere sul modello di Santa Caterina e prima ancora di Ildegarda di Bingen. Prosperi analizza il caso di Arcangela Pinigarola, monaca agostiniana del convento di Santa Marta a Milano, una donna, una ‘madre spirituale’ con doni profetici che “fu al centro di un gruppo di alti prelati, fervidi sostenitori della necessità di una riforma della chiesa e pronti ad accogliere come messaggi divini quelli che la Panigarola aveva mandato loro” (p. 79). Più in generale, in quei tempi “era normale da parte dei principi e di persone di un certo livello sociale entrare in rapporti di quel tipo con una madre spirituale: si poteva addirittura intendere questo specifico ruolo materno e protettivo come una funzione precisa da affidare formalmente a questa o a quella candidata” (p. 82); ma “verso il 1530 i gruppi raccolti intorno a visionari e a madri spirituali cominciano a diventare fenomeni eccezionali e pian piano vengono confinati nella zona dell’eresia, ben presto di pertinenza della rinnovata Inquisizione romana” (p. 83). Legato alla Panigarola, emblematico è il caso di Virginia Negri e delle sue Lettere Spirituali (1564), la ‘divina madre’ delle Angeliche, attorno alla quale si raccolsero i primi padri Barnabiti. In pochi decenni ci fu però un mutare “rapidissimo delle condizioni della vita religiosa italiana in particolare il mutare dei rapporti tra chierici laici tra uomini e donne. Intorno al 1530 era possibile e normale che … persone devote si raccogliessero intorno a personaggi carismatici e spirituali come potevano essere la Negri e Fra Battista da Crema: ma da lì a poco simili congregazioni diventeranno sospette” (p. 86). Il Besozzi, un antico fedele della Negri, così si esprimeva nel 1576: “Che santità è questa dominare a preti, monache e secolari, non havere rispetto alla dignità sacerdotale, farseli stare innanzi in ginocchio?” (p. 87). Così, conclude Prosperi, “non c'è da stupirsi se a partire dall'età Tridentina, il modello che si diffuse non fu quello delle ‘madri’ ma dei ‘padri spirituali’ (p. 91).
Un’altra direttrice di questo volume è l’impatto che la Riforma e la Controriforma ebbero sull’arte, in particolare sulla pittura. È ben noto che la critica di Lutero produsse una nuova stagione di iconoclastia (p. 210), di distruzione di immagini sacre (e di chiese contenenti immagini) in nome del peccato di idolatria, che trovava nella Bibbia molte pezze d’appoggio. La Controriforma, e il Concilio di Trento, reagirono anche a questo attacco, ribadendo, in genere, la liceità delle immagini sacre dei santi, della Madonna e delle Persone della Santissima Trinità. Ma era impossibile che la critica di Lutero e dei riformatori non avesse influssi sull’arte dell’età della Controriforma e quindi Barocca, nell’architettura e nell’organizzazione dello spazio delle antiche e nuove chiese cattoliche (emblematico fu il dibattito attorno alla facciata del Duomo di Milano al tempo del Borromeo). Perché le critiche tenaci, argomentate e reiterate producono sempre effetti (in chi critica e in chi viene criticato), effetti di segno opposto. Da una parte, le chiese della Controriforma si riempiono di dipinti di santi, di Addolorate (e soprattutto di Assunte), e quindi di miriadi di angeli; si riaffermò anche la validità del culto ‘esterno’, e quindi della magnificenza della chiese per dare gloria a Dio, e non solo del culto ‘interno’ nell’anima proposto da Lutero che vedeva nelle grandi chiese un ritorno al mondo pagano e una negazione della frase di Giovanni sui ‘veri adoratori in spirito e verità’ (Gv 4,24). Un’arte che nel suo insieme (non solo nei luoghi sacri) si allontanò dai temi civili, pagani e mondani del Rinascimento. Perché la Controriforma fu anche una reazione contro l’Umanesimo e il Rinascimento (della centralità dell’uomo e del suo corpo), e la sua arte divenne sempre più orientata al cielo e ai suoi abitanti. Nascono ed esplodono i ‘Sacri Monti’, soprattutto al Nord, con rappresentazioni pedagogiche della passione di Cristo, della Madonna e dei misteri del Rosario (Varallo, Crea, Oropa…). E chi mostrava resistenza di fronte alla rappresentazione di immagini sacri, si auto-segnalava in odore di eresia: “Uno di loro, all'inquisitore che gli chiedeva ‘se crede che si debba onorare l'immagine degli santi e della Vergine’, rispose: ‘noi siamo immagine vive di Cristo’” (p. 209).
Nel I millennio alcuni Concili (a partire da quello di Elvira del IV secolo) avevano ribadito il divieto di immagini sacre, sebbene il dibattito teologico fosse vivace e pluralistico, sottolineando le complicate distinzioni tra venerazione e adorazione, la differenza tra le immagini di Cristo e quella del Padre (non incarnato), a cui presero parte teologi quali Giovanni Crisostomo, Giovanni Damesceno, Andrea di Creta e molti altri, che raggiunse l’apice nei secoli VIII e IX. La prassi della Chiesa, certamente quella d'Occidente (in Oriente c’è tutto il grande tema dell'icona) non seguì l’approccio iconoclastico, anche perché l’incarnazione del Verbo aveva cambiato i termini del discorso, e soprattutto perché, dopo l’uscita della Chiesa dal primo alveo semitico iconoclastico, i popoli latini e greci erano grandi adoratori di statue e di immagini. Il Concilio di Trento, verso la fine dei suoi lavori (1563) produsse anche norme disciplinari sul culto delle immagini (e delle reliquie), rispondendo punto su punto alle critiche dei Riformatori - è impressionante quanto Trento prese sul serio quelle critiche. E così, le immagini sacre furono ritenute lecite, ma si operò una regolamentazione del tipo di immagini, e furono sottoposte all’approvazione dei vescovi. Si proibirono soggetti bizzarri (animali, decorazioni eccessive, nani, giullari: noto è il caso dell’Ultima cena, Convito a casa di Levi, del Veronese a Venezia nel 1573) tipiche del Manierismo in piena espansione in Europa, e le immagini sconce o procaci. Scomparve, ad esempio, il tema molto popolare nell’ultimo Medioevo della Madonna del latte (Virgo lactans), quel seno scoperto della Madonna fu considerato troppo lascivo - in alcuni casi si ritoccarono gli antichi dipinti e affreschi. Le sante e le madonne vennero sempre più coperte da molti strati di panni e, come effetto collaterale, le donne uscirono progressivamente di scena perché, potenzialmente, ogni immagine femminile poteva ‘tentare’ l’occhio maschile e celibe. È comunque da notare che passato il primo secolo e scongiurato il pericolo di una massiccia diffusione della Riforma sotto le Alpi, da metà Seicento quella magnificenza e quello sfarzo rinascimentale tornarono nelle chiese barocche, e in certi casi con toni trionfalistici ancora più accentuati - ma non tornarono i corpi scoperti, perché nel frattempo era cresciuta a dismisura la teologia della penitenza e della mortificazione dei corpi. Inoltre, come reazione al culto privato nella famiglia senza mediazione dei sacerdoti tra i protestanti, Trento non solo incentrò il culto sul clero, ma scoraggiò la presenza di immagini e oggetti di natura religiosa nelle case private: “Nella normativa di età tridentina si impose la distinzione tra ciò che poteva essere conservato e collezionato nelle dimore private e ciò che invece era esposto al pubblico (ed in particolare nelle chiese)” (p. 185).
Infine, ma potremmo e dovremmo continuare ancora per molto (ad es. con il lungo capitolo sulla nascita e diffusione del culto della Immacolata: pp. 385-423), un ultimo riferimento lo merita il capitolo su uno degli intellettuali cattolici più importanti del Novecento italiano: Don Giuseppe de Luca, e la sua monumentale opera Archivio Italiano per la Storia della pietà. Prosperi, di formazione laica, pubblicò uno dei suoi primi saggi nel 1969 con le Edizioni di Storia e Letteratura, casa fondata dal De Luca che era scomparso pochi anni prima. Per il ‘prete romano’, Prosperi esprime una sincera stima: “Diventare prete, non frate che era tutt'altra cosa, fu l'unica porta attraverso cui i figli delle classi popolari poterono entrare nel cerchio magico delle lettere, una porta che rimase aperta fino al secondo conflitto mondiale e al passaggio dell'Italia ad un'economia industriale.” (p. 474) L’idea che De Luca aveva di pietà, tutta da riscoprire, era un accesso all’anima profonda della gente italiana, per cui provava grande rispetto, anche per la sua origine povera, contadina, meridionale, “quella fede che si riconosceva nella pietà di Sant'Alfonso Maria de’ Liguori, autore che portò seco nel cuore quando ancora giovane partì per un seminario di gesuiti” (p. 477).
Lasciamo allora ad alcune stupende pagine di De Luca sulla pietà l’ultima parola: “Lutero e i suoi amici più vicini, spezzata ogni altra fedeltà, restarono sempre fedelissimi alla letteratura di pietà… Appunto perciò e come per un paradosso, chi paragona le parole che stanno sotto la ‘Passione secondo Matteo’ di J.S. Bach con la canzoncina devota del Settecento italiano, dubita forte della loro origine così diversa, tanto la pietà vi sembra la stessa. La Riforma sembra non essere avvenuta nel cuore della pietà” (De Luca Introduzione all’Archivio italiano della storia della pietà, p. xxxix). E ancora: “Questa pietas scoperta tra Dio e l’uomo, come tra padre e figlio, diede origine all’altra pietas tra uomo e uomo, come fratelli; e l’una e l’altra rinnovarono il mondo, e nell’una e nell’altra ha fatto consistere l’essenza del cristianesimo” (Ibid, p. xi). E infine: “Nella vita cristiana la pietas così concepita coincide, non tanto con l’ascetica né con la mistica non tanto con la devozioni o con le devozioni, quanto con la ‘Caritas’ - l’Archivio dell’amore di Dio… Modica fede sarebbe la nostra, a dubitarne… Non solo la pietà vive nelle arti, poesia da una parte, cosiddette arti belle dall’altra, ma vi regna: ne è la ispiratrice più ascoltata e l’imperatrice, ne è effettivamente e veramente l’anima, la vita” (pp. xiii, xxxii).