mercoledì 10 giugno 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
«Ripenso alla mia vita di studio, al mio lavoro su Heidegger interrotto. Perché ho abbandonato tutto questo? Mi ricordo con precisione: una strada piena di sangue e un carro con quattro cadaveri vicino al Mussotto. Il cantoniere che dice: "È meglio morire che sopportare questo". Sì, è allora che ho deciso di gettarmi allo sbaraglio. Avevo sempre odiato il fascismo, ma da quel momento avevo sentito che non avrei potuto vivere in un mondo che accettava qualcosa di simile, tra gente che non insorgeva pazza di furore, contro queste belve». Sono parole tratte da Banditi, il diario partigiano di Pietro Chiodi, tra i classici della letteratura resistenziale e scritto tra il 1945 e il 1946 dal filosofo che, grazie alla sua traduzione (nel 1953) di Essere e tempo di Heidegger, ha letteralmente inventato buona parte della terminologia della filosofia italiana della seconda metà del Novecento. Nato a Corteno Golgi (Brescia) il 2 luglio del 1915, Chiodi dopo la maturità magistrale si trasferì a Torino, dove si laureò in filosofia con Nicola Abbagnano. Incaricato della cattedra di Storia e Filosofia al liceo classico di Alba, ebbe come allievo Beppe Fenoglio, che nel Partigiano Johnny lo immortalò sotto il nome del professor Monti, e come collega Leonardo Cucito, il professore di Lettere comunista con il quale, pur militando in una formazione di Giustizia e Libertà, condivise la scelta partigiana. In quelle parole non è difficile scoprire l’ispirazione morale che portò Chiodi alla decisione partigiana: una rivolta kantiana in difesa della dignità dell’uomo. Dove dignità sta nel considerare ogni uomo come un fine e mai come un mezzo. Una rivolta che era anche un combattere, nella guerra civile , per una nuova possibilità di convivenza. Dignità, possibilità, decisione: sono le categorie che sono state poi al centro della riflessione filosofica di Chiodi, nei suoi studi e nelle sue traduzioni di Kant, Heidegger e Sartre. Nelle pagine di Banditi Chiodi ricorda il suo incontro il 4 settembre del 1944, nel campo di prigionia di Bolzano, con Teresio Olivelli, il martire della resistenza cattolica, morto nel lager di Hersbruck il 12 gennaio 1945. Questo il racconto di Chiodi: «Ho conosciuto Olivelli [...] faceva parte di un movimento democratico cristiano molto attivo nel bresciano. Catturato venne condotto a Fossoli [...]. Ora è qui, fra la vita e la morte. Lo sa ma non trema. Passa tutto il giorno. Passa tutto il giorno a prestare aiuto a questo e quello. È sempre sorridente. Ha visto che ero ammalato e seminudo. Poco dopo mi ha portato una pesante camicia militare. Non ho potuto fare a meno di accettarla». Parole dove traspare l’ispirazione cristiana dell’agire di Olivelli, e che sono speculari al ritratto che di Olivelli fece, negli stessi anni un altro filosofo partigiano, Alberto Caracciolo, di formazione veronese e insegnante al liceo Calini di Brescia tra il 1944 e il 1951.Amico di Olivelli fin dagli anni dell’Università a Pavia, Caracciolo faceva parte a Brescia di una rete di Fiamme Verdi che aiutarono Olivelli nella sua opera di organizzazione di un’opposizione militare antifascista. L’epicentro era l’Oratorio della Pace, e tra i resistenti figurava Romeo Crippa, anch’egli filosofo. Caracciolo non solo offrì a Olivelli la sua carta d’identità che gli permise di muoversi tra Milano, Cremona e Brescia, ma proprio dall’esperienza di Olivelli – nel suo passaggio dall’adesione al fascismo a una scelta antifascista, partendo da motivazioni etico-religiose – ha saputo ricostruire le ragioni filosofiche della resistenza di questi cattolici alla barbarie nazifascista. Erano motivazioni morali fondate sulla carità cristiana, che mettevano capo anch’esse alla triade categoriale: dignità, possibilità, decisione. Le stesse categorie cui giunse Chiodi in modo laico, e alle quali Caracciolo perveniva per via religiosa. Categorie che a ben vedere sono – e questo è forse uno degli insegnamenti filosofici della Resistenza vissuta da questi pensatori – le categorie dell’umano che non abdichi alla libertà politica e alla libertà di coscienza. Questa via morale, religiosa o laica, per la partecipazione alla guerra civile ha ispirato i filosofi italiani - partecipazione di cui si tenta qui un primo bilancio. Dai due martiri della filosofia italiana del Novecento, Pilo Albertelli ed Eugenio Colorni, alla scelta resistenziale di ispirazione martinettiana di Ludovico Geymonat, a quella comunista di Antonio Banfi e Giulio Preti, a quella religiosa di Luigi Pareyson, Sergio Cotta, Mario Dal Pra. Fino alla testimonianza autobiografica di Attilio Franchi, la cui scelta di militare nella Fiamme Verdi a fianco di Olivelli, Caracciolo e Crippa fu all’origine della sua successiva meditazione filosofica.Una costellazione di ritratti (quella presente nel fascicolo di “Humanitas” I filosofi italiani e la resistenza) che è l’inizio di una ricerca, che si spera possa trovare compimento in un volume dove si avranno anche i profili, tra gli altri, di Guido Calogero, Aldo Visalberghi, Norberto Bobbio. Se c’è una costante in percorsi così diversi, è il ritorno, nelle pagine e nel lessico di ciascun pensatore, del problema squisitamente kantiano della critica al dispotismo come pervertimento politico dei fini ultimi della convivenza sociale. Al punto che – quasi fosse una cifra simbolica – la maturazione in Mario Dal Pra dell’antifascismo ebbe il suo punto di svolta, nel 1943, con la recensione all’edizione della Religione nei limiti della sola ragione di Kant curata da Alfredo Poggi, un discepolo di Pietro Martinetti. Come se i filosofi italiani della Resistenza – pur distanti teoreticamente tra di loro e appartenendo di fatto negli anni della guerra civile alle Fiamme Verdi, alle Brigate Garibaldi o a Giustizia e Libertà – avessero de jure militato in una noumenica «brigata kantiana».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: