giovedì 7 maggio 2015
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​Dove si trovava nel 1948 Okwui Enwezor, il direttore della 56ª Biennale d’Arte di Venezia che si apre domenica? In nessun luogo, perché è nato nel 1963. Eppure, nel suo saggio in catalogo, tra altre cose pretenziose, annota: «Dopo una pausa di sei anni dovuta alla guerra, la Biennale tornò nel 1948. Diversamente da “Documenta I”, che sfruttò l’occasione della prima mostra per esaminare il retaggio degli abusi politici dell’arte sotto il Terzo Reich negli anni del nazismo, l’edizione del 1948 della Biennale rimase in silenzio riguardo al fascismo». Pare di sognare, leggendo affermazioni come questa. “Documenta I” (la prima della kermesse che si tiene ogni cinque anni a Kassel) si svolse dieci anni dopo la fine della guerra. Se una mostra di questo tipo, come scrive Enwezor, deve occuparsi dell’attualità e del futuro prossimo, allora si potrebbe obiettare: non sarebbe stato opportuno che Documenta si occupasse di comunismo e sovietismo, all’epoca più che mai vivi (anche in terra tedesca)? Ma se proprio vogliamo buttarla sul discorso politico, non avrebbe dovuto piuttosto parlare di arte e totalitarismo? Su quell’edizione di Documenta pesava la ben nota questione della “colpa” che i tedeschi hanno portato sulla loro schiena a lungo, e un artista oggi celebratissimo come Kiefer venne alle cronache alla fine degli anni Sessanta con le “occupazioni” durante le quali si fece fotografare mentre faceva il saluto nazista. Nel 1948 fare una mostra sul fascismo, per regolare i conti, avrebbe significato semplicemente mettere il dito in una piaga freschissima: il caso storico del rapporto fra l’arte e il regime italiano è molto meno lineare di quanto non sia quello dell’arte sotto i regimi nazista e sovietico; in Italia non vi fu il caso dell’arte degenerata, e buona parte degli artisti (architetti compresi) ebbe rapporti col fascismo senza esserne l’espressione. Non parlare di fascismo nel 1948 a Venezia (ci fu però una retrospettiva dedicata a Picasso), ancora troppo vicina era la fine della tragedia, fu un modo per sentirsi liberi, in certa misura, dal peso della politica. Che non significa, secondo la polemica di Enwezor, “disimpegno”. La disputa fra astrattisti e realisti italiani all’epoca è lì a dimostrare il contrario: ma già all’inizio degli anni Cinquanta gli artisti si resero conto che continuare a condizionare l’arte con l’ideologia avrebbe fatto male alla loro capacità espressiva. Forse bisognerebbe meditarci sopra anche oggi.Non basta, infatti, farsi profeti dell’arte sintomatica, dell’arte socialmente impegnata, del marxismo di risulta che, del resto, piace molto ai liberali progressisti; non basta essere di origini nigeriane (ma laureati in scienze politiche a New York, come Enwezor) per indossare la cappa del pauperismo e dell’happening contro i poteri forti; non basta leggere Das Kapital una pagina al giorno per duecento giorni, o citare i soliti Benjamin, Deleuze, Guattari, Foucault, per combattere una guerra persa ancor prima di sparare un colpo: il fatto stesso di agire dentro un contenitore come la Biennale (o Documenta) nega l’efficacia del contrasto al potere, se il tema di fondo non torna a essere lo specifico dell’arte: estetica e discorso sulla forma.È la strada presa da Vincenzo Trione, come curatore del Padiglione Italia. L’allestimento è pulito, grandi stanze accolgono ciascuna l’opera di uno dei quindici artisti invitati. L’ouverture però è affidata a Peter Greenaway, il noto regista dello Zoo di Venere, che rivisita il «Codice italiano» componendo una stanza dove immagini e parole si sovrappongono di continuo quasi come tracce fisiche della grande mente italiana sedimentata da secoli e secoli di arte. È un inizio molto estetizzante, che compensa col suo dinamismo colorato la stasi quasi catacombale dei grandi loculi dedicati ai protagonisti. Altri omaggi all’Italia da William Kentridge e Jean-Marie Straub. Prevale dunque una linea culturologica di moda, il convitato di pietra è Aby Warburg. Le intenzioni del curatore però sono sproporzionate agli esiti della rassegna. In che modo, ci si chiede, quel codice italiano è presente nelle opere di artisti che sembrano quasi eluderlo con le loro scelte formali: le opere più belle sono quelle di Claudio Parmiggiani (una gigantesca àncora piantata nel muro ha infranto un’immensa vetrata) e di Marzia Migliora (una lunga stanza il cui pavimento è ricoperto di pannocchie); ma altri rasentano il kitsch, come il deposito delle sculture di Vanessa Beecroft, o i dipinti di Nicola Samorì che inscenano una sorta di trompe-l’oeil della tela arrotolata e accartocciata che ricade come un velo strappato sull’immagine dipinta. Manca al Padiglione Italia quel controllo della macchina, per così dire, che consente alla giusta varietà dei mezzi di fondersi in una sinfonia capace di evocare il grande passato di cui siamo eredi. Ma forse eredi con la testa troppo piena di idee e cose che non c’entrano con noi. L’effetto mausoleo dell’allestimento travolge anche il più importante fra gli artisti esposti, Jannis Kounellis, che cede all’estetismo come poche altre volte gli era capitato: un’opera, questa, da dimenticare per non rimettere in discussione il giudizio su un artista che ha espresso alcuni dei livelli maggiori nell’arte italiana del secondo Novecento.Viviamo un conformismo dell’arte ridotta a messaggio, a critica della globalizzazione, che rifiuta ogni idea di canone e di ambiti artistici perché teme di essere accusata di “richiamo all’ordine”. Enwezor si dimostra eccellente manipolatore di questo conformismo, anche se la sua Biennale, pulita, vagamente austera o moderatamente ludica, trasversale o pauperista (molte opere nuove, ribadisce, e di artisti non troppo noti), si allinea al “richiamo all’ordine” che Massimiliano Gioni, il precedente direttore, aveva interpretato con maggior pulizia espositiva e con un furbo richiamo alla memoria.Siamo chiari: i curatori di queste grandi kermesse internazionali rispondono a regole d’ingaggio che discendono dai poteri forti (del mercato, del collezionismo, dei musei). Se Marx commentò l’amena affermazione di Hegel secondo cui i grandi personaggi della storia si presentano due volte, aggiungendo «la prima volta come tragedia, la seconda come farsa», allora direi che questa Biennale è a suo modo la seconda volta di tante altre già viste. Persino il vecchio, grande Baselitz, con i suoi quadroni di uomini a testa in giù incanta, e subito dopo immalinconisce; così, nella Palazzina dei Giardini, l’omaggio a Fabio Mauri, ripresentando il celebre Muro Occidentale, altare sacro eretto sovrapponendo tante diverse valigie cariche di storie personali e umane, annulla l’enorme peso politico che aveva ancora il ricordo di quell’opera vista nel 1993 sempre alla Biennale di Venezia. Sono errori che contano, che un curatore esperto come Enwezor non dovrebbe commettere. Perché, è chiaro, rivedere quel muro alla Biennale è una desacralizzazione del potere “politico” dell’opera, che è vincolata alla sua apparizione in un tempo storico e in un luogo preciso, irripetibili. Salvo la farsa ideologica. O il mausoleo.Enwezor ammicca molto nelle sue scelte. I nomi della pittura – ne cito alcuni: Lorna Simpson, Ellen Gallagher, Chris Ofili, Baselitz, Tetsuya Ishida, la fin troppo celebrata Marlene Dumas, il romeno Victor Man e l’ucraino Mykola Ridnyi – drenano per così dire il profluvio di installazioni che occupano sale intere, l’incidenza calcolata dei video (a prevalenza discorsiva) e di tanta fotografia: insomma, più che una interazione fra le arti si tratta di una volontà ecumenica di tenere insieme tutto sotto l’ombrello di una visione “ideologica”, che non ha il coraggio di tentare la carta dell’inattuale e dunque ricade nel passato recente delle Biennali, risultando quindi vecchia nell’impianto. Però, dopo questa Biennale, abbiamo una certezza in più, o forse una foglia di fico in meno: Marx va d’accordissimo col Capitale. Qualcuno metta fine alla farsa.
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